La Commissione europea ha messo al lavoro una squadra di economisti e di esperti del mercato unico per valutare l’impatto economico della chiusura delle frontiere nell’Unione europea. Il presidente Jean Claude Juncker ha già indicato qualche cifra: il costo annuo per il rallentamento dei trasporti merci arriverebbe almeno a 3 miliardi. Per ipotizzare una tendenza, però, ci vuole altro. Non è un lavoro che si concluderà rapidamente perchè il problema di partenza è di difficile soluzione: in quanti paesi saranno ripristinati i controlli (per ora sono sei: Austria, Germania, Danimarca, Francia, Svezia e Norvegia)? Per quanto tempo (i sei mesi attuali saranno con ogni probabilità prorogati e ciò è possibile fino a due anni complessivi secondo le attuali regole di Schengen)? In quale misura si indebolirà l’intensità del mercato unico europeo? E la dimensione dell’impatto sui bilanci pubblici? La cosa certa è che per anni sono stati studiati i costi della ‘non Europa’ nel tentativo di inseguire un mercato unico perfetto, ora si cerca di stimare i costi di un mercato che sarà un po’ meno unico e molto più costoso
Sulla base di una previsione di un arrivo di 3 milioni di richiedenti asilo nel continente (un milione nel 2015, un milione e mezzo nel 2016 e un altro mezzo milione nel 2017), un paio di mesi fa la Commissione europea aveva stimato che la forza lavoro europea aumenterebbe nel 2015 dello 0,1%, nel 2016 dello 0,3% nel 2016 e nel 2017. A parità di formazione e capacità lavorativa degli immigrati, ciò farebbe aumentare il pil fino allo 0,21% nel 2016 e a 0,26% nel 2017. A patto che tre quarti dei richiedenti asilo siano in età di lavoro. L’impatto sul deficit pubblico sarebbe dello 0,04% nel 2016 e nel 2017 con un incremento possibile a 0,03% e a 0,05% nel 2019 e nel 2020. La maggior parte degli Stati membri non subirebbe alcun impatto perché non sono una meta di destinazione degli immigrati. Ciò anche nel caso di ripartizione dei rifugiati (l’accordo tra i governi sulla ripartizione dei rifugiati, comunque, è di fatto lettera morta). Per i paesi più esposti come meta di destinazione finale, l’impatto sul bilancio pubblico può anche arrivare a stabilizzarsi attorno allo 0,2% nel 2016.
Il Fondo monetario internazionale stima che nel 2015 e nel 2016 le spese di bilancio nei paesi Ue possono aumentare dello tra lo 0,05% e lo 0,1% nel 2016 e che solo una parte limitata dei costi immediati per gestire i flussi di immigrati sarà sostenuta dal bilancio Ue. Ma dei costi immediati non fanno parte i trasferimenti sociali e i sostegni alla disoccupazione per quelli che in futuro saranno regolarizzati. L’impatto sul pil di medio termine dipenderà dall’integrazione nel mercato del lavoro. Se avverrà entro il 2020, il pil Ue potrebbe aumentare di un quarto di punto percentuale e fra lo 0,5% e l’1,1% in Austria, Svezia e Germania.
Si tratta di scenari verosimili? Sia la Commissione europea che il Fondo monetario internazionale sono molto cauti. Le assunzioni di base per le simulazioni dei vari scenari devono essere prese con le molle. E’ totale l’incertezza sul numero di immigrati, sulle destinazioni, sui costi dell’integrazione a medio e lungo termine, sul livello di qualificazione dei profughi, sugli effetti che la loro presenza nel mercato del lavoro avrà sui ‘nazionali’ e sui lavoratori provenienti a loro volta da Stati Ue. Gli economisti di Bruxelles da tempo dicono che studi di questo genere “possono fornire solo una guida parziale per valutare la situazione attuale e i margini di errore delle stime possono essere più grandi del normale”.
Così come è del tutto incerto l’effetto sul funzionamento del mercato unico, la leva economica fondamentale del successo dell’Unione europea che oggi comincia a diventare pesante. Le merci ferme per i controlli alle frontiere rappresentano un costo che si moltiplica in misura esponenziale. “La reintroduzione di controlli alle frontiere avrebbe conseguenze economiche significative: non solo 1,7 milioni di ‘pendolari’ continentale troverebbero difficoltà a lavorare, ma i processi di produzione che si basano su catene del valore lunghe e sui prodotti intermedi provenienti da tutta Europa sarebbero colpiti”, sostiene Guntram Wolff del ‘think tank’ di Bruxelles Bruegel