Scambio automatico delle informazioni tra amministrazioni fiscali sui cosiddetti ‘tax rulings’, gli accordi conclusi con le imprese, in prevalenza società multinazionali, da diversi mesi sul banco degli accusati in seguito all’inchiesta giornalistica LuxLeaks. Lunedì la Commissione europea presenterà la proposta di direttiva annunciata a fine 2014. Per il presidente Jean Claude Juncker è un appuntamento ad alta intensità politica. Il Lussemburgo, vera e propria piattaforma globale per la pianificazione fiscale aggressiva, governato da Juncker per 18 anni consecutivi, è sotto il tiro dell’Antitrust europeo insieme con Irlanda, Olanda, Belgio. Poi si tratterà di vedere come la Commissione risponderà alla richiesta di Italia, Francia e Germania di stringere ulteriormente la corda agli evasori, gruppi imprenditoriali compresi. In una lettera alla Commissione, ai primi di dicembre i tre ministri delle finanze Padoan, Sapin e Schaeuble, avevano indicato che “i limiti della concorrenza fiscale permessa tra gli Stati membri sono cambiati, si tratta di un evento irreversibile”. Procedere su tale strada, però, sarà meno facile che far passare la direttiva sui ‘tax rulings’.
Il testo della proposta della Commissione sugli accordi fiscali privilegiati per le multinazionali sarà molto breve, quanto basta per indicare una cosa molto precisa: va riconosciuto il principio dello scambio automatico di informazioni tra amministrazioni fiscali. Lo ‘scambio automatico’ ormai è lo strumento con il quale in Europa e a livello globale si cerca di coordinare il contrasto dell’evasione fiscale. E’ lo ‘scambio automatico’ delle informazioni, per esempio, che ha fatto cadere il segreto bancario. Il G20 si è impegnato a far entrare in vigore nei paesi aderenti il sistema automatico di scambio delle informazioni fiscali entro il 2017 o fine 2018. Non è ancora chiaro se nel testo della Commissione ci sarà l’indicazione precisa di fornire informazioni sui ‘tax rulings’ in corso di negoziazione: finora la Commissione ha sempre indicato che la partita dovrebbe riguardare solo gli accordi “esistenti”. E’ in ogni caso difficile si arrivi a questo dato che si tratta di società quotate in Borsa per la quale le scelte fiscali costituiscono un importante elemento di valutazione della redditività dell’impresa. Stando a fonti comunitaria, si prevederanno sanzioni per chi non rispetta la direttiva.
Tre i fattori che hanno messo le ali alla Commissione europea nel fare luce sugli accordi di favore alle multinazionali. Il primo è politico e ha che vedere con la stessa stabilità dei vertici comunitari: l’esposizione personale di Juncker su tale dossier, a causa della sua passata ed evidente responsabilità del Lussemburgo in materia di ‘tax rulings’, è massima. In ogni caso, chi sperava in una immediata caduta di Juncker è stato sonoramente smentito. Il suo peso politico nelle istituzioni europee e nelle relazioni con i governi non è diminuito a causa di LuxLeaks e della catena di inchieste aperte dall’Antitrust del cui lavoro peraltro il presidente della Commissione è responsabile in pieno. Semplicemente l’esponente lussemburghese si sta giocando la faccia.
Il secondo fattore che obbliga a decisioni rapide è costituito dalle inchieste per aiuti di Stato in corso che riguardano ormai diversi paesi: Lussemburgo (‘rulings’ a favore di Amazon e Fiat Finance and Trade), Irlanda (Apple), Olanda (Starbucks), Belgio (diverse multinazionali): la Concorrenza non ha un calendario preciso da rispettare, ma stando a quando indicato nelle settimane scorse i primi risultati dovrebbero aversi entro la primavera. Va tenuto presente, in ogni caso, che la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager ha chiesto informazioni a tappeto a tutti i governi proprio sui ‘tax rulings’. Il terzo fattore è la pressione politica di vari governi per limitare i danni della concorrenza fiscale all’ultimo sangue tra gli Stati. La crisi finanziaria, la recessione e l’enormità dell’ingiustizia fiscale hanno reso più acuta l’esigenza di trovare un nuovo compromesso tra i paesi membri.
E’ un percorso a ostacoli. Basti pensare al caso dell’Irlanda: nel corso dei negoziati con la Troika per il salvataggio finanziario alcuni grandi creditori (Francia e Germania innanzitutto) avevano esercitato forti pressioni per far muovere al rialzo l’aliquota sul reddito di impresa al 12,5%. Hanno dovuto desistere. Stessa cosa a Cipro, altro paese in corso di salvataggio, ha la stessa aliquota, la più bassa in assoluto di tutta l’Unione europea.
Nella lettera al commissario francese Pierre Moscovici, il terzetto Padoan-Sapin-Schaeuble scrivono che “l’assenza di armonizzazione fiscale nella Ue è una delle cause principali che permette la pianificazione fiscale aggressiva, l’erosione della base fiscale e il trasferimento dei profitti all’interno del mercato interno”. Sulle aliquote la partita è chiusa prima di cominciare: sul fisco si decide all’unanimità, chi volesse ingaggiare un braccio di ferro sulle aliquote si condanna da solo. Immaginare il Regno Unito cedere su questo elemento fondativo della sovranità nazionale (aliquota ‘corporate’ al 21% mentre in Germania è al 30,2%, in Francia al 38%, in Italia al 31,4%) significa perdere il senso della realtà. Ieri come oggi, alle prese con la marcia galoppante degli euroscettici.
Si tratta almeno di far uscire dalle secche la direttiva per una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società di cui si discute dal 2011, che prevede specifiche norme anti-abuso. Da tempo la Commissione ha lanciato l’allarme indicando che “la discussione in corso non ha prodotto molti risultati e non per colpa nostra, dobbiamo andare oltre”.
L’obiettivo di Italia, Francia e Germania è adottare una direttiva complessiva per contrastare la pianificazione fiscale aggressiva, l’erosione della base fiscale e lo spostamento dei profitti entro il 2015 che includa norme sulla trasparenza fiscale e sulla tassazione dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei brevetti (patent box) più una clausola generale anti-abuso. Inoltre rientrerebbero in tale disegno anche le royalties, le cui aliquote massime sono fortemente divergenti nella Ue (Belgiuo 6,8%, Francia 15%, Regno Unito 10%, Lussemburgo 5,72%, Malta e Cipro 0%, Olanda 5%, Portogallo 11,5%, Spagna 10%, Ungheria 9,5%.
Due mesi fa il responsabile degli affari fiscali Pierre Moscovici aveva risposto ai tre governi concentrandosi sulle norme per una base fiscale comune consolidata per la tassazione delle imprese, quale “leva” per introdurre un certo grado di armonizzazione. Le discussioni sono faticosissime. Tra gli scogli del negoziato il trattamento degli ‘asset intangibili’ (capitale intellettuale tra cui marchi registrati e brevetti), che costituiscono il “driver” dei profitti delle multinazionali e sono i candidati naturali per il trasferimento dei profitti, uno dei perni dei sistemi di ottimizzazione fiscale al limite della legalità.
“Attualmente gli Stati scambiano tra loro solo poche informazioni sugli accordi relativi ai regimi di imposizione fiscale delle società, che sono spesso molto complessi – indica una fonte comunitaria tecnica -, ciò rende difficile per le autorità fiscali valutare dove si svolge effettivamente l’attività economica di una società e applicare equamente su tale base la normativa fiscale”. Ecco il varco che permette a molte multinazionali di trasferire i profitti e ridurre il più possibile le imposte dovute. In tempi di stagnazione economica e di casse pubbliche povere ciò non è più tollerabile.