E’ paradossale che dal 1979, man mano che il Parlamento europeo ha guadagnato potere, gli elettori abbiano ridotto la loro partecipazione al voto. Eppure dovrebbe accadere il contrario se è vero che dalle aule di Bruxelles e Strasburgo deriva oltre il 60% della legislazione nazionale degli Stati membri. Ma è un dato di fatto che la Ue non ha sostituito gli Stati nazionali e probabilmente non li sostituirà mai. Così non deve stupire che l’attenzione dei mercati finanziari non sia catturata dal rischio che con un terzo di europarlamentari che rappresentano posizioni euroscettiche o anti-europee il gioco politico europeo sarà molto più complicato di prima (e già lo è abbastanza), bensì dalle conseguenze del voto sulle politiche nazionali e sul ritmo delle riforme economiche. Una vittoria di Alexis Tsipras in Grecia condurrà alla fine del (debole) governo Samaras? Una netta affermazione del Front National francese ridurrà ancora di più i margini di manovra del governo socialista Valls? Un Movimento 5 Stelle a ridosso del Pd in termini di voti sarebbe l’anticamera di una crisi politica in Italia dall’esito incerto (e con la sola certezze che le riforme innestate rallenteranno)? Sono queste le incertezze di questi giorni.
Sull’astensionismo elettorale va ricordato che, sebbene con una intensità molto meno marcata, la tendenza al calo della partecipazione al voto che si registra per l’Europarlamento è in sintonia con quanto avviene nelle elezioni nazionali e nel voto americano per il Congresso, compreso quello di ‘medio termine’. Dal 1979 ci sono sempre meno elettori: coincidente la discesa del voto europeo e del voto di ‘medio termine’ per il Congresso Usa, progressiva dal 1979 sugli stessi valori (da poco sopra il 60% a sopra il 40% all’ultimo appuntamento). Il voto per il Congresso negli anni delle presidenziali è passato da poco meno l’80% a poco meno del 70%. Le parlamentari nazionali negli Stati membri della Ue da circa l’85% a poco meno del 70%. Negli Stati Uniti la differenza nella partecipazione alle due consultazioni per il Congresso viene spiegata così: gli elettori sono più incentivati a partecipare quando si decide contemporaneamente chi guida il potere esecutivo e chi guida il potere legislativo. E’ una specie di ‘resa dei conti’ a 360 gradi. In Europa viene spiegato con la “distanza” tra istituzioni Ue e cittadini, ma questa “distanza” è tanto maggiore quanto più spesso l’Unione europea diventa il caprio espiatorio delle cose che non vanno nel proprio paese. Decidere a Bruxelles e sparare contro quanto deciso dagli stessi governi una volta tornati a casa è uno sport opportunistico ampiamente praticato da molti responsabili politici.
Se le tendenze disegnate dai sondaggi pre-elettorali saranno confermate, l’Europarlamento non sarà certamente ingovernabile, ma né la destra né la sinistra da sole avranno la maggioranza, per cui appare molto probabile una soluzione di ‘coalizione’ tra Ppe e Pse per le scelte istituzionali (nomine) con geometrie estremamente variabili per le scelte legislative correnti. Così d’altra parte è sempre stato: la differenza rispetto alla precedente legislatura è che le posizioni anti-europeiste ed euroscettiche non potranno essere più considerate eccentriche o folkloristiche, riflettono posizioni che in molti paesi hanno un peso politico considerevole e in qualche caso enorme (quest’ultimo è il caso del Front National in Francia). Ciò vale per Grecia, Italia, Austria, Olanda e, naturalmente, per il Regno Unito.
I sondaggi indicano che la vera novità sarà la forza delle posizioni ‘anti-establishment’, intendendo per ‘establishment’ il sistema dell’Unione europea che ha prodotto più integrazione, con un accentuato spostamento di sovranità che si è accelerato nel corso della crisi del debito sovrano ed è destinato a estendersi nell’Eurozona, un sistema che ha gestito la lunga recessione, che ha inventato la Troika. Il fatto che tre paesi su cinque non abbiano più bisogno di assistenza finanziaria che l’euro non sia andato in mille pezzi sembra non fare la differenza. D’altra parte, l’anti-europeismo è diventato il coagulo di posizioni nazionaliste e populiste che si trovano a destra quanto a sinistra (a sinistra non in forma estrema).
E’ la prima volta che i mercati attendono con una particolare tensione i risultati di un voto europeo. Non c’era grande tensione cinque anni fa, eppure il 2009 era stato l’anno in cui la crisi finanziaria (Lehman Brothers era saltata il 15 settembre 2008) aveva nutrito la crisi economica generalizzata, con il pil in caduta a quota -4,4% nell’Eurozona e a -4,3 nell’Unione europea. Poi è scoppiata la lunga crisi del debito sovrano nell’Eurozona. Ciò che mette in allarme in questi giorni gli investitori non è il rischio di una gestione più complicata del Parlamento europeo, quanto il rischio che si indebolisca il quadro politico in alcuni paesi chiave con effetti sul ritmo delle riforme economiche strutturali: la Grecia innanzitutto, poi la Francia. Per l’Italia l’attenzione è sulla consistenza del risultato del Pd in rapporto al Movimento 5 Stelle.
Sarà duro il confronto fra i capi di Stato e di Governo della Ue, convocati martedì sera a Bruxelles, sulla nomina del presidente della Commissione e sulle altre nomine delle istituzioni europee (va indicato anche il nome del ‘ministro’ degli esteri Ue, a fine novembre scade il mandato del presidente dell’Unione Herman Van Rompuy, c’è il presidente dell’Eurogruppo da cambiare). Ci sarà un braccio di ferro fra Parlamento e governi. E ci sarà anche molta discussione sulle priorità politiche della legislatura sulla base delle indicazioni scaturite dalle urne. Alcuni leader, tra cui il britannico Cameron e l’olandese Rutte, vogliono assicurarsi che tra le priorità ci sia anche il “rimpatrio” di una serie di competenze da Bruxelles alle capitali. Cioè meno Europa.