Il vertice dei Capi di Stato e Governo di giugno dovrà dimostrarsi in grado di avere una ricetta concreta per fronteggiare la disoccupazione giovanile. Ormai l’impegno è stato preso sia a Bruxelles che in diverse capitali. In questi ultimi giorni diversi leader hanno insistito su questo da Francois Hollande a Mariano Rajoy a Enrico Letta, rapidamente inserito nella discussione politica europea per ‘cementare’ la svolta per un nuovo compromesso tra politiche e tempi dell’austerità da un lato, interventi a favore della crescita dall’altro lato. Le diplomazie stanno studiando tutte le possibilità aperte per evitare che il Vertice europeo finisca come quello dell’estate scorsa, quando venne sancito un pacchetto per la crescita costruito sostanzialmente su investimenti finanziari già previsti. La differenza rispetto a un anno fa è che la Banca europea degli investimenti è stata ricapitalizzata (10 miliardi) e ciò permetterà di liberare prestiti per 60 miliardi in più in tre anni con un effetto leva sugli investimenti in Europa che viene stimato in 180 miliardi. Poco si sa al momento della proposta sul lavoro giovanile. Una task force italo-spagnola è al lavoro. Sono al lavoro i tecnici di Commissione e Consiglio Ue. L’obiettivo è andare oltre la decisione dei governi presa a febbraio di creare una iniziativa per l’occupazione giovanile con 6 miliardi di finanziamento per il periodo 2014-2020 di cui la metà provenienti dal Fondo sociale europeo nei paesi nei quali la disoccupazione giovanile supera il 25% e cioè: Bulgaria (29,2% a marzo), Irlanda (30,3%), Spagna (55,9%), Francia (26,5%), Italia (38,4%), Polonia (28%), Portogallo (38,3%), Slovacchia (34,5%). Grecia (59,1% a febbraio). Ora c’è un’idea lanciata dal commissario Laszlo Andor: procedere verso ‘stabilizzatori automatici’ europei.
L’iniziativa è sostenere i giovani che non frequentano corsi di formazione e qualificazione, non sono occupati o non sono sotto ‘training’. Basterà? Non basterà, ma sarà pur sempre un segnale che va nella direzione giusta. Il problema è che occorre intervenire sull’impostazione generala della politica economica europea. E’ la partita delle priorità nel consolidamento dei bilanci, un nuovo scambio: più tempo ai governi a fronte di impegni più stringenti sulle riforme. Basterà? Non basterà, ma è una scelta fondamentale che non riguarda più qualche singolo paese, riguarda ormai circa metà dell’Eurozona (Francia, Spagna, poi Portogallo, poi l’Italia per quanto rigaurda la flessibilità sui tempi per arrivare all’equilibrio di bilancio). E’ una operazione in simultanea. La flessibilità sincronizzata sui tempi potrebbe cambiare il ‘sentimento’ di imprese e consumatori. Che cosa manca, allora se tutto questo non basta? E’ stato il commissario agli affari sociali Laszlo Andor, socialista ungherese, a dare una risposta: “Senza una unione monetaria sociale, solidale l’unione non può durare, una prospettiva di un futuro comune ha senso solo quando i partners possono confidare in un aiuto reciproco”. Sono cose dette mille volte, ma su questo non c’è consenso in Europa e in particolare nell’Eurozona dato che, come ricorda Andor, “nella costruzione dell’unione monetaria è stata esplicitamente esclusa qualsiasi responsabilità comune per i debiti nazionali, non si prevedono trasferimenti fiscali tra paesi, non ci sono ‘stabilizzatori automatici’ che possano aiutare la ripresa economica nei paesi sotto choc asimmetrico”” (che colpisce cioè un solo paese e non l’area nel suo complesso). Basta vedere le difficoltà del negoziato sull’unione bancaria e in particolare sulle regole per la gestione ordinata dei fallimenti per capire quanto pesa l’assenza di una visione comune su questo. O la bocciatura della solidarietà tra i sistemi nazionali di garanzia dei depositi (anche all’Europarlamento). Fino al paradosso di aver istituito l’European Stability Mechanism (l’organismo che presta fondi ai paesi da salvare), che agisce come prestatore di ultima istanza ma non lo si può dire.
La questione degli ‘stabilizzatori’ europei (automatici e non) è molto importante e la crisi del debito sovrano lo ha ampiamente dimostrato: proprio durante questa crisi è emerso che gli ‘stabilizzatori automatici’ si sono sempre più indeboliti nei paesi sotto tiro. Chiamati così perché non implicano misure discrezionali, gli ‘stabilizzatori automatici’ compensano gli effetti dei soprassalti del pil sul sistema economico. La tassazione del reddito è un classico caso: quando si riduce la crescita si riduce automaticamente l’imposta perché si riduce l’imponibile. Altro esempio la spesa in sussidi di disoccupazione: aumenta se aumentano i disoccupati. La Commissione europea ritiene che la crisi “ha approfondito la divergenza tra i paesi in termini di capacità dei governi nazionali di contrastare il ciclo negativo”, capacità già ristretta nell’Unione monetaria perché non si possono influenzare unilateralmente i tassi di cambio e lo spazio di manovra dei bilanci pubblici è ridotto al minimo. Paesi come Irlanda, Spagna e Cipro si sono trovati nella situazione peggiore. “In assenza di unione di bilancio – sostiene Andor – i paesi sotto tiro devono fronteggiare la pressione dei mercati finanziari da soli, devono aumentare le imposte e ridurre la spesa pubblica rapidamente con pesanti effetti restrittivi sulla spesa e la protezione sociale, i servizi pubblici”. Per questo il sistema degli ‘stabilizzatori’ si è indebolito e in alcuni paesi “è sostanzialmente sparito”, così i redditi delle famiglie sono risultati meno protetti di quanto accadesse in passato aggravando così la recessione.
Non tutti i paesi sono nella stessa situazione: in Germania c’è spazio per agire, dice Andor, “ma in Germania c’è meno bisogno di usare gli ‘stabilizzatori’ adesso”. In Spagna accade il contrario: i redditi continuano a calare e i sostegni alla disoccupazione non sono in grado di compensare tali perdite perché è sotto austerità. Chiara la conclusione: la ripresa sarebbe più vicina se l’Eurozona disponesse di ‘stabilizzatori automatici’ transnazionali.