Dall’inizio della crisi dell’Eurozona, fine 2009-inizio 2010, si sono svolti oltre venti vertici di capi di stato e di governo europei e almeno il doppio di riunioni dei ministri finanziari. Nelle ultime settimane, poi, c’è stata una impennata dei viaggi tra le capitali per incontri bilaterali: da e per Berlino, Parigi, Madrid, Roma, Atene. Con una novità: sotto il fuoco delle critiche per le sue rigidità e lentezze, Angela Merkel ha passato in rassegna Madrid, Atene e Lisbona, ha incontrato l’Europarlamento a Bruxelles, per spiegare le sue ragioni e confermare che l’Eurozona non verrà lasciata a sé stessa. Una specie di ‘turismo della crisi’ che ha rappresentato un fattore di fiducia, anche se si tratta ancora di una fiducia fragilissima, la presa d’atto che non c’è alternativa al dialogo costante e strettissimo tra i 17 governi.
I tre principali protagonisti delle decine di incontri bilaterali a livello di capi di stato e di governo Eurozona, una ventina solo dal primo settembre, sono stati la cancelliera tedesca, il presidente francese e il premier italiano. Tutti e tre avevano – e hanno – obiettivi precisi. Tre quelli di Monti: convincere che il paese è sui binari giusti, rassicurare sul dopo elezioni (è la cosa che gli riesce meno bene), dispiegare con ogni mezzo la sua capacità di negoziazione e proposta per sbloccare le resistenze tedesche sull’uso dei meccanismi europei anti-crisi sulla vigilanza bancaria alla Bce. Hollande doveva cambiare le carte della Francia che con con Sarkozy faceva dell’asse con Merkel l’unica bussola di azione europea predeterminando successi e insuccessi dei vertici prima ancora che questi si svolgessero. Inoltre aveva – e ha – l’obiettivo di allontanare l’idea che la Francia rischia di trovarsi nella scomoda posizione di diventare il nuovo malato d’Europa. In tandem con Monti, poi, ha forzato la mano sul riequilibrio dell’attenzione politica europea sull’azione per la crescita. Se ne è parlato molto, ma ancora non c’è molto di concreto a parte la ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti che è stata decisa ma non ancora effettuata.
I ‘tour’ della crisi di Angela Merkel sono di tutt’altro tipo. Dal rientro dalla pausa estiva il suo obiettivo è stato ricostruire la propria immagine europea passando dalla fase delle due ‘R’ alla fase delle tre ‘R’. La prima fase si è caratterizzata per il rigore (prima R) estremo nell’attuazione delle regole della disciplina di bilancio nei paesi sotto il tiro dei mercati e alla riluttanza (seconda R) estrema a prendere decisioni conseguenti alle dichiarazioni politiche generali per poter passare sotto le forche caudine del Bundestag . In sostanza la cancelliera ha imposto i tempi e i modi per fronteggiare la crisi del debito sovrano tenendo tutti in ostaggio sulla base del proprio calendario politico-elettorale. Nella seconda fase vengono mantenuti rigore e riluttanza (con qualche ammordibimento) e si aggiunge la strategia della rassicurazione per cerca un consenso più ampio (ecco la terza R). Si potrebbe aggiungere anche una quarta ‘R’, rispetto pieno, pubblicamente proclamato, per quanto Grecia, Portogallo e Spagna stanno affrontando. Per questo, a poche settimane di distanza tra un viaggio e l’altro, Merkel è andata in successione a Madrid, Atene e Lisbona, un po’ come andare nella ‘fossa dei leoni’ se si guarda alle forti contestazioni di piazza che ha ricevuto (a distanza).
In tutti e tre i casi, Merkel è stata ferma su quanto governi e parlamenti dei tre paesi devono fare, ma altrettanto ferma sulla necessità di difendere l’Eurozona così com’è, senza espulsioni o fuoriuscite. Guardacaso in contemporanea con le prime certezze che l’economia tedesca sente sempre di più l’affanno della recessione altrui (nell’Eurozona) e si accorge che non basta essere un grande esportatore e produttore in Asia per svangarla. D’altra parte, dai primi giorni di settembre la Cancelleria aveva fatto filtrare all’esterno che sulla Grecia stava maturando un cambiamento di toni e linguaggio. Per quanto siano effimere le reazioni borsistiche, non è stato un caso che la piazzaffari di Atene abbia chiuso a +5,5% il giorno (5 ottobre) in cui venne annunciato l’arrivo di Angela Merkel in Grecia.
Questioni di linguaggio, di toni, appunto, che hanno però modificato il contesto in cui si muovono i governi mezzo annichiliti dalla recessione, incalzati dalle proteste sociali nei paesi più fragili, in difficoltà a tenere insieme il pilastro del rigore di bilancio e il pilastro dell’azione della crescita (i risultati ci sono sul primo, non ci sono sul secondo). Il fatto che l’Eurogruppo deciderà martedì di dare ad Atene due anni in più per raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica (debito/pil al 120% nel 2022 invece che nel 2020) significa che il quadro è cambiato. Tardi, ma è cambiato. Che si litighi ancora sul modo di finanziare questa maggiore flessibilità è tutto sommato ovvio: a meno che tutto si inceppi proprio su questo, visto molti ritengono inevitabile che una qualche forma di intervento aggiuntivo i governi Eurozona dovranno fare in termini di riduzione degli interessi sui prestiti o di uso dei profitti Bce sulla detenzione del bond sovrani o addirittura di riduzione volontaria del valore dei titoli detenuti dagli Stati. Quando c’è da tirar fuori qualcosa il percorso diventa a ostacoli. C’è da sperare che questa fase di ‘tour’ della crisi termini la prossima settimana a Bruxelles.