Finalmente l’Europa si muove. Non per scelta consapevole dei governi ma sotto i colpi della realtà. Questa volta sono gli elettori a sparigliare. In Francia hanno voltato pagina, in Grecia non hanno voltato pagina, ma hanno rappresentato fedelmente un paese spaccato, frantumato in tanti pezzi che esprime il no all’Europa o, meglio, alla dura terapia finanziaria e sociale targata Europa. Non importa che questa terapia è un atto di sovranità nazionale nel quadro di una sovranità sovranazionale condivisa. Si può non essere d’accordo, naturalmente, si può parlare di semplice logica bancaria: il debitore da un parte, il creditore dall’altra. Ma la sostanza non cambia: gli impegni del governo Papademos sono gli impegni dello Stato greco e vanno onorati. La Francia invece rassicura o, nell’ipotesi minima, non crea scompigli, i mercati non sembrano davvero impressionati. Buona notizia, purtroppo la Grecia riscatena illazioni e speculazioni di uscita dall’Eurozona, e se esce la Grecia si indebolisce tutto il resto. La tensione è massima: senza una maggioranza ad Atene che possa durare nel tempo, si caricherà come una molla. E poi dietro la Grecia c’è la Spagna, l’altro grande interrogativo dell’unione monetaria: il sistema bancario è troppo fragile, è ancora lontana una soluzione convincente mentre l’economia continua a sprofondare.
Conclusione: ciò che si guadagna con l’arrivo di Hollande, in termini di rafforzamento dell’attenzione alla crescita dell’economia (della linea non-solo-austerità), si perde con la pericolosa incertezza del quadro politico in Grecia. Senza un governo stabile ad Atene crolla tutto: prestito internazionale a rischio, banchieri di nuovo in allarme, debito sovrano Eurozona da fuggire. La risposta politica farà la differenza: con Hollande è molto probabile che la cancelliera tedesca Angela Merkel si appresti a cambiare registro. Non sui tabù estremi (mandato della Banca centrale europea da avvicinare a quello della Federal Reserve, Eurobond), ma almeno sui tabù ‘intermedi’. Uno di questi riguarda la possibilità di non contare la spesa pubblica per investimenti produttivi di interesse europeo nel momento in cui vengono valutati i tempi per ridurre i deficit pubblici e arrivare all’equilibrio di bilancio (almeno fino a quando non sarà certo l’Eurozona esca dalla recessione). Su questo sta premendo molto Mario Monti.
Un altro ‘tabu’ riguarda l’espansione della domanda nei paesi che hanno margini di manovra avendo i conti pubblici a posto. E qui c’è una novità: il ministro delle finanze tedesche Wolfgang Schaueble ha annunciato che è corretto lavorare affinché i salari tedeschi comincino a correre più velocemente dei salari negli paesi europei. Ciò servirà a ridurre gli squilibri macro-economici dell’unione monetaria (la Germania è un paese tradizionalmente con un enorme surplus nei conti esterni) e a contrastare l’anemico consumo privato interno. Di conseguenza, si apre la porta alle merci degli altri paesi Eurozona attanagliati dalla recessione e dai conti pubblici in rosso. I sindacati dell’industria chiedono un aumento del 6,5%, le imprese indicano +3% in 14 mesi. Si vedrà, ma intanto la strada è segnata. Qualcosa, dunque, cambia anche in Germania. In questa fase di recessione nell’Eurozona aumentare i salari nella prima economia dell’area è una scelta pro-Ue. Qualcuno dirà che si tratta di segnali insufficienti, utili a sostenere la campagna ‘Schaueble alla testa dell’Eurogruppo’ (va sostituito l’attuale presidente Jean Claude Juncker), ben lontani dal necessario. Forse, però, c’è