Riaprire o no il vaso di Pandora, cioè rimettere mano o no al Trattato Ue per prevedere sanzioni politiche (sospensione del voto nei consessi europei) a carico dei paesi che, non rispettando i vincoli della disciplina di bilancio, mettono a rischio la stabilità finanziaria dell’Eurozona, e per creare un meccanismo permanente di gestione delle crisi finanziarie dei paesi membri (come è accaduto per la Grecia)? Dovranno rispondere a questa domanda i capi di stato e di governo che si riuniranno a Bruxelles il 28 e il 29 ottobre. Non potranno temporeggiare, una risposta va data subito perché Parigi e Berlino stanno facendo sul serio. E’ questo il messaggio che le due capitali stanno facendo circolare in questi giorni. Bruciano ancora le stizzite reazioni per il solito direttorio a due (Francia e Germania) che decide per tutti, le polemiche per il ‘tradimento’ tedesco sulle sanzioni semi-automatiche (nel giro di pochi giorni la Germania ha cambiato posizione appoggiando Francia e Italia per evitare decisioni semi-automatiche sulle sanzioni in caso di violazione delle regole di bilancio). Ma è poco o nulla di fronte all’accelerazione, per i più inaspettata, subita dalla politica europea negli ultimi giorni. Il problema è che si tratta di una accelerazione verso una fase che potrebbe rivelarsi molto confusa.
Partiamo dalle cose più chiare. La prima riguarda il motivo della mossa franco-tedesca. Per la Germania la sanzione politica dell’indisciplina di bilancio è il punto di arrivo necessario di un indurimento delle regole del patto di stabilità. Ancora più importante, però, è la creazione di un meccanismo permanente anti-crisi per sorreggere gli stati che non riuscissero a finanziarsi sul mercato, la definizione di principi che regolino la gestione delle crisi evitando salvataggi diretti e generalizzati, prevedendo probabilmente la possibilità di ristrutturazione del debito. Di questo nessuno parla nei dettagli perché sarebbe come offrire ai mercati appigli per future speculazioni e ‘prove’ che tutti temono. Eppure questa è la ‘gamba’ mancante delle riforme post-crisi dopo la supervisione finanziaria a livello Ue, la supervisione sui bilanci pubblici e gli squilibri macro-economici, la risoluzione delle crisi e la gestione dei fallimenti bancari. L’obiettivo è evitare situazioni di ‘azzardo morale’ a livello degli stati. Berlino vuole evitare due cose: che nel 2013, quando scadrà l’European Financial Stability Fund (500 miliardi di euro) messo in piedi questa estate, non rimanga altra soluzione che prorogarlo così com’è oggi; che la Corte costituzionale tedesca bocci la partecipazione tedesca al Fondo Ue anti-crisi. I tempi concordati da Merkel-Sarkozy non sono scelti a caso: dare un mandato al presidente Ue Herman Van Rompuy per definire le modifiche del Trattato entro la primavera, ratifiche entro il 2012, partenza dal 2013.
Che cosa ottiene la Francia, fino a ieri contrario ad aprire il ‘vaso’ europeo? La certezza che non ci sarà un eccesso di automatismo delle sanzioni economiche: per arrivare a deciderle occorreranno due decisioni dell’Ecofin, non una sola come auspicato da Commissione Ue e Bce. Una posizione nella quale si è ritrovata l’Italia fin dall’inizio. E la convinzione che assecondare la Germania sul Trattato può essere una via per cementare il ‘governo economico’ dell’Eurozona.
Angel Merkel è sotto accusa da più parti, dalla Bce a settori della stessa coalizione di governo a settori dell’Europarlamento, per il ‘tradimento’ sulle sanzioni, ma c’è da chiedersi se, in qualche misura, quel ‘tradimento’ non rappresenti un male minore rispetto alla possibilità di dotare l’Eurozona di regole politiche e per gestire l’emergenza finanziaria codificate nel Trattato. Inoltre, non è detto che la vittoria del fronte ‘flessibilista’ sulle sanzioni comporti altrettanta flessibilità su aspetti importanti della riforma del patto di stabilità, a cominciare dalla valutazione del debito pubblico (comprese le sue relazioni con il debito privato, elemento considerato di estrema importanza dall’Italia). Non è un caso che fonti diplomatiche europee in queste ore ricordino come il negoziato all’Ecofin parte dalle proposte della Commissione, compresa quella di ridurre di un ventesimo l’anno la parte di debito/pil che supera il 60%, e che “le conclusioni della ‘task force’ sono una cornice politica, se pure importante”. La partita del debito, in sostanza, è tutta aperta.
Ultima cosa certa: l’opposizione della Bce alla “politicizzazione” delle decisione sulle sanzioni. La valutazioni di Francoforte pesano molto, ma già una volta la Bce si è messa di traverso nel 2004-2005 quando il patto di stabilità venne riformato e non accadde nulla. Jean-Claude Trichet confida nell’Europarlamento, che sulla riforma del patto di stabilità ha voce in capitolo essendo co-legislatore, ma è difficile che i governi possano essere messi seriamente alle strette.
Tra le cose incerte, la più incerta è se il Trattato sarà veramente modificato. L’appetito per una pietanza del genere è modestissimo. Alcuni paesi sono già sul piede di guerra, come la Repubblica Ceca. L’Olanda storce il naso. L’Irlanda lo storcerebbe volentieri, ma è troppo fragile in questo momento per poter ingaggiare una qualsiasi battaglia. Che la porta, però, non sia chiusa lo dimostra la prudenza britannica: si può fare a patto che non si trasferiscano poteri da Westminster a Bruxelles. Dato che il Regno Unito non fa parte dell’Eurozona, quasi ci siamo. L’Italia non è aprioristicamente contraria a cambiare il Trattato (come dire, se proprio non se ne può fare a meno…). Il Trattato può essere modificato solo all’unanimità e ciò rende il percorso impervio. Al limite, i paesi Eurozona potrebbero sottoporsi volontariamente alle sanzioni politiche, anche questa idea è circolata nei ‘palazzi’ di Bruxelles, ma allora finirebbe tutto in burletta.