L’accordo sulla riforma finanziaria e sull’attività delle banche negli Stati Uniti dovrebbe far squillare l’allarme a Bruxelles e nelle capitali europee vista l’ambizione a diventare il faro delle nuove regole del gioco della finanza globale: il ‘pacchetto’ europeo sulla supervisione finanziaria e sul controllo dei settori della finanza sfuggiti finora a qualsiasi controllo (gli hedge fund) sono ancora oggetto di difficili faticose trattative all’Europarlamento. Mentre sulla vigilanza di taglia europea una decisione prima della chiusura estiva è possibile, sui ‘fondi alternativi’ (dagli hedge al private equity) il voto finale è stato rinviato a settembre. La speranza è trovare un accordo con il Regno Unito, che ospita la maggior parte degli hedge fund: Londra vuole garantire a tutti i costi una via di uscita a quei fondi piazzati fuori Europa che troverebbero delle difficoltà a ottenere il ‘passaporto’ europeo per poter operare indistintamente in tutti i paesi membri. Se si passa al capitolo banche, relativamente alla tassazione straordinaria per ripagare i costi della crisi finanziaria, se è vero che i Ventisette concordano sulla necessità di un intervento del genere, sottobanco si sta discutendo per creare piste variabili, una specie di principio ‘à la carte’ (è bene ricordare che le scelte fiscali restano comunque di stretta competenza nazionale). Ci sono paesi, infatti, in cui non c’è stato alcun bisogno di salvare le banche (l’Italia innanzitutto) e per questo non ritengono necessario un intervento del genere. Si riproducono in Europa le stesse differenze (e diffidenze) che emergono al G20 (sono Canada, Australia, Brasile e India a opporsi a intervento di tale natura con gli stessi argomenti).
Tuttavia un problema emerge nel momento in cui alcuni governi, e che governi, procedono speditamente in quella direzione: l’annuncio del nuovo governo britannico che le banche dovranno pagare complessivamente una tassa annuale di 2 miliardi di sterline è l’avvio unilaterale di una nuova era. Francia e Germania sono sulla stessa linea, anche se i dettagli dell’intervento non sono stati ancora resi noti. Nel mulinare di lettere e dichiarazioni comuni della coppia Merkel-Sarkozy ce n’è una in cui annunciano che la loro tassa sulle banche sarà introdotta da gennaio 2012. E, c’è da giurarci, lo faranno insieme. In mancanza di una strategia comune, stiamo entrando pienamente nel teatro delle azioni unilaterali post-crisi: ora è la volta delle tasse bancarie, prima è stata la volta delle proibizioni delle vendite allo scoperto in Borsa delle azioni dei maggiori gruppi quotati o dei derivati, prima ancora era toccato alle garanzie bancarie (all’inizio della crisi finanziaria fu il caso dell’Irlanda). E una decisione unilaterale era praticamente pronta sugli stress test bancari: nel tentativo di reagire alla sfiducia dei mercati, il premier spagnolo Zapatero ha messo l’ultimo Vertice Ue quasi di fronte al fatto compiuto annunciando che la Spagna avrebbe pubblicato i risultati del test per verificare l’impatto di choc economici futuri sui bilanci delle banche. Soltanto dopo lo ‘strappo’ spagnolo, subito sbandierato come argomento decisivo da molti governi (Francia in primo luogo) e dalla Bce, la Germania ha dovuto accettare ciò che mai aveva accettato (cioè la pubblicazione dei test sui 25 gruppi bancari paneuropei).
Questi sono tutti segnali che indicano quanto sia maledettamente complicato disegnare un nuovo quadro di regole sotto l’urgenza di una crisi che non è ancora finita e, anzi, ha rimesso al centro dell’attenzione proprio le banche. Il problema è che un male sottile sta ripercorrendo la politica europea post-crisi, un male sottile che rende più difficile i prossimi passi, il primo dei quali è il negoziato sulle nuove regole di sorveglianza dei bilanci pubblici e delle politiche economiche che prenderà quota in autunno. Può essere definito ‘cacofonia strategica’, quella sgradevole impressione prodotta dall’incontro di opinioni e decisioni (non di suoni) disarmonici, politiche (non strumenti) non intonati fra loro. I contrasti sul giusto equilibrio da garantire fra l’esigenza di non danneggiare l’intensità della ripresa appena sbocciata, ancora a macchia di leopardo, e l’esigenza di ridurre piuttosto rapidamente deficit e debiti pubblici, è un esempio lampante di tale cacofonia. E’ giustificato il mal di pancia europeo per la durezza della manovra finanziaria tedesca. La Germania tiene tutti sul filo del rasoio obbligandoli di fatto a seguirla. Per quanto la sua politica sia poco cooperativa, si tende a dimenticare che questo è anche il prezzo, amaro, da pagare per mantenere un ‘quadro’ europeo di controllo delle finanze pubbliche e per gestire non solo la crisi greca ma anche altri eventuali bubboni finanziari che possono appestare altri stati. E si tende a dimenticare come non abbia molto senso sostenere che i tedeschi devono essere meno competitivi di quanto sono, ha più senso premere affinché liberalizzino i loro servizi per incrementare per questa via la domanda interna.
Non solo i governi sono cacofonici, il male sottile serpeggia anche ai piani alti della stessa Commissione europea. A fronte di un Josè Barroso (presidente) e un Olli Rehn (responsabile degli affari economici) schierati con la Bce a difendere la linea ufficiale (il consolidamento dei bilanci non soffoca l’economia, ma crea le condizioni per la sua crescita’), ha fatto scalpore una voce fuori dal coro, quella del commissario agli affari sociali Laszlo Andor, ungherese, secondo il quale le misure di austerità scattate in simultanea “hanno creato il rischio di una nuova caduta recessiva almeno nell’Europa del sud con un impatto potenziale sull’intera economia europea”.