LETTERA DA BRUXELLES Sul ‘bail-in’ il Fondo monetario internazionale si avvicina alle tesi italiane

Le eredità del passato, in sostanza il cumulo di crediti in sofferenza. Il modello di business. Le sfide regolamentari. Sono questi i tre fattori che hanno reso vulnerabili sui mercati borsistici i titoli bancari europei, in particolare quelli degli istituti di credito greci, italiani, con minore intensità portoghesi, quelli di alcune grandi banche tedesche (è il caso Deutsche Bank, che dall’inizio dell’anno ha perso il 34% del valore in Borsa a fronte di una media dei paesi più grandi della zona euro di -25%). E sono sempre queste le sfide che vanno affrontate e rapidamente risolte. E’ questa una delle indicazioni chiave che emrge dall’analisi del Fondo monetario internazionale sul sistema bancario europeo. Analisi che arriva a una conclusione molto vicina alle tesi italiane: le regole europee del ‘bail-in’ “devono essere applicate con attenzione perché un sostegno pubblico può tuttora essere necessario in una crisi” e deve poter essere considerata “l’esclusione di alcuni creditori se ci sono rischi per la stabilità finanziaria”.

Nel rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato a Washington, il tema del ‘bail-in’ (si tratta delle regole della risoluzione delle banche che spostano sul settore privato, obbligazionisti junior compresi, il peso della soluzione delle crisi) è uno dei tre problemi fondamentali delle banche della zona euro che devono ancora essere risolti.

Il Fondo monetario ritiene che la direttiva sulla risoluzione bancaria preveda i giusti incentivi per adeguare il ruolo di banche e investitori a fronte dei rischi assunti, però, dice che non bisogna nascondere le difficoltà che “possono emergere nel periodo di transizione”. Nel rapporto non si citano casi particolari, ma è il caso italiano (la risoluzione di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti con l’azzeramento del valore delle obbligazioni subordinate) al quale evidentemente si allude.

Il ragionamento in termini generali è il seguente: con la pesante eredità dei crediti in sofferenza (il rapporto tra ‘npl’ e totale dei prestiti in essere nei paesi ‘core’ della zona euro è del 4,3%, in Italia dell’11,2%) e la bassa profittabilità, creare capacità di assorbimento delle perdite richiederà tempo e può rivelarsi difficile per alcune banche. Di conseguenza occorre massima prudenza. “Le regole europee sugli aiuti di Stato, che limitano l’uso di fondi pubblici nelle ristrutturazioni bancarie, e la direttiva sulla risoluzione sono un freno alle distorsioni di mercato e al ‘moral hazard’, ma dovrebbero essere attuate con attenzione”. Nell’attuale situazione “dovrebbero essere considerate le opzioni previste dalla direttiva”, come l’esclusione di alcuni creditori dal ‘bail-in’ in nome della stabilità finanziaria. L’assonanza con le posizioni italiane è perfetta: pochi giorni fa il dg di Bankitalia Salvatore Rossi ha indicato che lo schema unico di risoluzione delle crisi bancarie “presenta problemi di applicazione e rischi per la stabilità sistemica”.

Naturalmente il Fondo monetario internazionale – come spesso accade – lancia il sasso, ma nasconde almeno una parte della mano. Così aggiunge che l’esclusione di alcuni creditori dal ‘bail-in’ per ragioni sistemiche “può risultare difficile” nel momento in cui si cerca di rastrellare il rastrellabile presso azionisti e creditori privati e si deve assicurare che gli altri creditori non si trovino, alla fine, in una situazione peggiore rispetto alla classica liquidazione della banca. Resta il fatto che che sulle regole del ‘bail-in’ il tarlo del dubbio ha lambito anche il Fmi.

Non soltanto la primaria istituzione finanziaria internazionale pubblica si schiera a favore di una riflessione sul “grado di flessibilità” delle regole del ‘bail-in’ entro giugno 2018 (è già previsto per quella data che la Commissione faccia una prima valutazione), ma anche sulla riduzione della soglia per la ricapitalizzazione diretta delle banche da parte dell’European Stability Mechanism (che va oltre l’8%). Questa è una lancia spezzata a favore di un ruolo crescente che l’Esm (il Fondo salva-stati della zona euro che emette bond e finanzia i prestiti di salvataggio) come ‘scrigno’ finanziario dei governi dell’unione monetaria.

Altri due punti dell’analisi Fmi sono interessanti. Il primo riguarda la valutazione della costruzione dell’unione bancaria: restano vuoti, varchi preoccupanti, è scritto nel rapporto, la sua “architettura resta incompleta senza uno schema comune di garanzia dei depositi” che ridurrebbe il rischio di fuga dai conti correnti, indebolirebbe il legame rischi sovrani nazionali e rischi bancari, unificherebbe i sistemi di assicurazione nazionali. Il Fondo monetario non va al di là dell’ormai ovvia indicazione per cui la condivisione dei rischi nella zona euro deve andare di pari passo con “altre misure per ridurre i rischi del settore bancario”: su questo è in corso da qualche mese un duro negoziato all’Eurogruppo del quale la riduzione delle esposizioni delle banche al debito sovrano costituisce lo scoglio più arduo da superare.

Il Fmi punta anche l’attenzione sull’assenza – ancora – di un ‘backstop’ comune. Senza un paracadute finanziario dell’Eurozona (sotto la regia degli Stati) “c’è il rischio che in una crisi, le stesse autorità nazionali debbano sostenere le banche nella loro giurisdizione facendo riemergere il nesso rischio sovrano/rischio bancario e la frammentazione finanziaria”. Anche questo è un punto di fragilità sul quale l’Eurogruppo sta cercando – per ora senza riuscirci – un denominatore comune (Italia e Francia presenteranno alla riunione informale di Amsterdam il 22 aprile la proposta per affidare proprio all’Esm la funzione di ‘backstop’ finanziario).

L’altro elemento di analisi interessante nel rapporto sulla stabilità finanziaria del Fmi riguarda la definizione di che cosa può essere una “normalizzazione di successo” della situazione in relazione alla stabilità globale. Dei sette elementi decisivi, due riguardano il sistema bancario della zona euro: il ritorno a una certa “vitalità” del settore con una riduzione del tasso di ‘default’ dei prestiti al settore ‘corporate’ non finanziario del 2% nei prossimi due anni, l’aumento dei ‘ratio’ di capitale fra l’1 e l’1,3% nei paesi con spread elevato entro il 2019.

Gli altri elementi di riferimento per un giudizio sul ritorno alla “normalità” su scala mondiale sono un aumento degli investimenti privati del 4% e dei consumi privati dell’1% nelle economie avanzate sistemiche nei prossimi due anni; una fase di disindebitamento ordinato in Cina e di riequilibrio della domanda privata dagli investimenti ai consumi; un “deterioramento leggero” dell’indebitamento pubblico nelle grandi economie a causa di politiche di bilancio più espansive a fronte di “miglioramenti moderati” in altre aree del mondo (indicazione per la Germania); un aumento della produzione globale di 1,7% rispetto alle stime di base entro il 2018 e dei prezzi delle materie prime energetiche e non energetiche rispettivamente del 13,6% e del 6,8%; un’accelerazione del processo di ‘reflazione’ verso gli obiettivi di stabilità monetaria, accompagnato da un graduale aumento delle curve di rendimento dei bond sovrani (+ 50 punti base in tutte le grandi economie avanzate entro due anni) parallelamente a un rialzo dei prezzi azionari in termini reali del 10%. Sono queste le ‘tavole’ di riferimento gettate oltre l’ostacolo.