E’ la politica del ‘passo corto’ che sta mettendo a rischio la stabilità dell’Eurozona. Da tempo i governi chiave, Francia e Germania per intenderci, se ne sono accorti e come loro abitudine Nicolas Sarkozy e Angela Merkel hanno indicato in tandem la soluzione: stringere le corde delle decisioni al massimo livello politico, coordinamento e supervisione delle grandi scelte strategiche in materia di bilancio, fisco e politiche economiche accentrato nelle mani di capi di stato e di governo. Obiettivi: da un lato dare l’immagine di una Eurozona coesa e garante delle decisioni prese dai ministri delle finanze agitando come una clava il commissariamento dei paesi che non rispettano gli impegni (né più né meno di quanto accade oggi a Grecia, Irlanda e Portogallo); dall’altro lato, rispondere alla domanda di legittimità politica della sorveglianza europea. Ma c’è anche un terza motivazione: la stretta politica sull’Eurogruppo serve anche a impedire che la Commissione europea diventi l’unica piattaforma dalla quale partono allarmi, procedure, proposte, in sostanza si gestiscono crisi e soluzioni.
Quale fisionomia e quale natura avrà la ‘governance’ economica nell’Eurozona si saprà fra un paio di settimane quando il presidente Ue Herman Van Rompuy presenterà le sue proposte al vertice europeo. Una cosa si può già dire, però, subito: un governo economico non può reggersi su una riunione dei capi di stato e di governo dell’Eurozona ogni sei mesi sia pure sorretto da un forte segretariato tecnico. Se non vengono definite delle regole, se non c’è la possibilità di assumere decisioni vincolanti senza che un solo paese, magari piccolo, impedisca di agire si rischia di creare nella migliore delle ipotesi uno specchietto per le allodole, nella peggiore una alternativa alla Commissione europea probabilmente in violazione del Trattato Ue.
L’Eurozona sta soffrendo una crisi acuta di spiazzamento rispetto agli eventi che inevitabilmente alimenta e amplifica l’incertezza sui mercati finanziari. Aver proceduto di tamponamento in tamponamento dell’emergenza ha certamente frenato la crisi, dato tempo alla Grecia come alle banche europee fortemente esposte al rischio sul debito. Ma ora questa strategia si è rivelata un boomerang. L’Eurozona fu spiazzata un anno e mezzo fa, quando venne definito il primo prestito alla Grecia e si trattava non di un prestito “europeo” ma di un prestito bilaterale di ogni stato dell’Eurozona, capolavoro del metodo intergovernativo. Passato qualche mese si riaprì la partita per creare il Fondo salva-stati europeo in un primo tempo rifiutato.
Altro esempio di ‘passo corto’ è il nuovo sistema di coordinamento e supervisione delle politiche di bilancio e macro-economiche. Sia chiaro: le innovazioni sono molte a cominciare dalla concentrazione sul debito, dalla riduzione della ampia discrezionalità dei governi a zigzagare tra allarmi e procedure avviate, allo spostamento di sovranità dalle capitali al livello Eurozona per la definizione delle leggi di bilancio. Con l’aggiunta che i mercati presteranno molta più attenzione a quanto avverrà a Bruxelles: quanto più funzionerà il controllo sull’azione dei governi tanto più ‘early warning’, richiami, decisioni della Commissione e dell’Eurogruppo fattori cui i mercati diventeranno estremamente sensibili. Non possono sfuggire, però, due elementi. Il primo è l’assenza del “cappello” politico: un sistema del genere non può funzionare con un presidente Eurogruppo (a livello di ministri finanziari) a mezzo servizio, stimolatore, persuasore più o meno occulto, ma un semplice ‘pari’, non un primo tra i pari. Il secondo elemento è che il quadro di riferimento della ‘governance’ resta la netta separazione tra responsabilità nazionali e aspirazione a costruire una effettiva unione economica. Concettualmente è come se si vedesse l’unione economica come una sommatoria di atti di volontà dei paesi che ne fanno parte, che dovrebbe assicurare politiche uniformi con il solo scopo di scongiurare l’instabilità dell’area. Il vero interrogativo è se ci si possa ancora limitare a un sistema di ‘governance’ che impedisce a uno stato dell’Eurozona di comportarsi da ‘viaggiatore clandestino’ (beneficia del viaggio senza pagare il biglietto come è stato il caso della Grecia ma anche della Spagna o del Portogallo e in parte pure dell’Italia). Ci sono dei rischi nel lancio di un Eurobond, cioè di una mutualizzazione parziale del debito pubblico nell’Eurozona, ma certamente è una prospettiva che non si limita a una visione ‘repressiva’ della convivenza nell’unione monetaria, individua al contrario una direzione di marcia cosa di cui molti in Europa sentono il bisogno. Per la verità il Fondo salva-stati (Efsf) si fonda già sulla condivisione del rischio di prestare soldi alla Grecia, ma guai a accettarne le logiche conseguenze. Ecco un’altra dimostrazione della visione ‘corta’ dell’Eurozona. L’assenza di una direzione di marcia precisa fa male ai mercati: che ultimamente le imprese europee corrano a emettere più debito in valuta limitando le operazioni in euro è logico per diversificazione la base degli investitori, è una necessità, ma è anche un segno di profonda sfiducia nell’Eurozona.