La Danimarca “apre” al debito comune, in gioco la capacità Ue di progredire

 Qualche segnale c’era già stato nei mesi scorsi, soprattutto in conseguenza delle necessità di aumentare la spesa pubblica per la Difesa a causa delle guerre in corso (Ucraina e Medio Oriente) e dell’approssimarsi di una stretta sugli impegni finanziari in ambito Nato con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Ma anche a causa dell’accresciuta consapevolezza che con le risorse Ue attuali non sarà possibile finanziare gli investimenti per la riconversione verde e per migliorare la competitività europea. Ultimamente i segnali si sono fatti più insistenti. Ora è la premier danese Mette Frederiksen a mandare in soffitta il suo passato “frugale” e dichiarare all’agenzia nazionale Ritzaus Bureau che “i prestiti congiunti sono un’opportunità per attrezzare l’Europa per il futuro, dovremo fare investimenti altrimenti perderemo semplicemente le nostre capacità di progredire o avere influenza globale”.

 Nel 2020 quando nella Ue si cercava un accordo – poi raggiunto – per il piano di ripresa sotto Covid, la Danimarca faceva parte del gruppo dei cosiddetti “frugali” che resistevano all’emissione di debito comune. Ne facevano parte anche Austria, Olanda e Svezia. Il “quartetto” lavorava anche per conto della Germania. Ora difficoltà economiche, sfide globali con Usa e Cina, le guerre hanno modificato contesto e prospettive politiche quanto economiche. Mettono alla prova radicate convinzioni.

  Detto questo, la strada per definire di nuove soluzioni per finanziare i grandi progetti di investimento è ancora lunga. Debito comune è una parola d’ordine che divide ancora profondamente la Ue. Eppure le cose non sono ferme, anche se nulla si muoverà prima delle elezioni tedesche anticipate al 23 febbraio.

 Meno di un mese fa al vertice di Budapest i Ventisette avevano faticato parecchio a trovare una formula che mettesse d’accordo tutti. Si limitarono a indicare che sarebbe stato “esplorato lo sviluppo di nuovi strumenti” per mobilitare finanziamenti pubblici e privati. Oltre a quelli esistenti che in un modo o nell’altro fanno perno sul bilancio dell’Unione europea con risorse proprie il cui aumento è all’ordine del giorno da anni. Tra l’altro, la propensione di molti governi e non solo dei classici “frugali” non guarda ad aumenti dei contributi nazionali al bilancio bensì in direzione opposta.

 La presidente della Commissione von der Leyen spiegò a Budapest che per aumentare le risorse del bilancio ci sono due modi: o contributi degli Stati o con mezzi reperiti per la Commissione e che “in entrambi i casi ciò include che si raccolgano fondi sui mercati”. Però nel programma del suo secondo mandato a Bruxelles non c’è traccia di riferimenti a nuovi strumenti finanziari, termine magico così generico da poter essere accettato anche da chi non vuole sentir parlare di debito comune. Questo non viene evocato in quanto tale e se non lo si evoca neppure lo si esclude.  A Budapest emerse che il consenso su che cosa “esplorare” non c’era.

 Nell’intervista a Ritzau, la premier danese – socialdemocratica alla guida di una coalizione con due partiti liberali – afferma: “Non vedo come riusciremo a finanziare il tutto con mezzi noti, anche come governo danese stiamo guardando agli aiuti statali con nuovi occhi e nuove lenti, guardando al debito comune con nuovi occhi e nuove lenti e guardando al bilancio della Ue con nuovi occhi e nuove lenti. È un tempo nuovo. In tutti i paesi, e questo vale anche per un paese come la Danimarca che di solito è sul ‘carro’ dell’austerità, dobbiamo accantonare le reazioni automatiche e vedere quali sono i bisogni dell’Europa, poi dobbiamo adattare l’economia ad essi invece del contrario. Non posso permettermi di non farlo”.

 La ministra dell’economia Stephanie Lose ha dichiarato al giornale danese Borsen che non c’è ancora una posizione del governo sul debito comune però ha sottolineato che la Ue si è già indebitata per fornire prestiti all’Ucraina e che ritiene che l’Unione concederà prestiti all’Ucraina per la ricostruzione a lungo termine del paese attraverso debito congiunto.

 Le esigenze finanziarie per la Difesa europea e per migliorare la competitività sono enormi, non basteranno fondi pubblici come non basteranno capitali privati anche se il vero deficit di investimenti riguarda più il privato che non il pubblico nella Ue. Si scommette sull’integrazione dei mercati dei capitali europei per attrarre investitori e risparmiatori europei, ma non è cosa di immediata realizzazione.

 L’ipotesi sulla quale si lavora non è la riedizione del Recovery Fund che finanzia i Pnrr deciso a metà 2020 sotto pandemia, (scadrà nel 2026). D’altronde ci sono ancora molti fondi da spendere sia nel bilancio Ue sia nel quadro del Recovery Fund per cui è difficile sostenere che ne occorrono altri adesso. Ufficialmente i Ventisette si attestano sulla linea dell’utilizzo dei fondi e degli strumenti esistenti, della Banca europea degli investimenti per sfruttare al massimo l’effetto leva dell’apporto pubblico per attrarre capitali privati. Si intende ragionare su progetti specifici non su megaprestiti ai governi.

 Recentemente il presidente dell’Eurogruppo Pascal Donohoe ha in icato che a questo punto occorrerebbe smettere di dividersi su un Recovery Fund 2 e cominciare a ragionare concretamente su ciò che deve essere finanziato, da chi, come e con quali modi, scadenze. Una fonte diplomatica europea spiega che l’intervento Ue può essere definito una volta che si verifica che l’apporto privato può arrivare solo fino a un certo livello. È una via pragmatica al tema del finanziamento.

  Le nuove regole di bilancio “salvano” espressamente gli investimenti nella Difesa dal calcolo degli aggiustamenti dei conti e lasciano dei margini di maggiore flessibilità rispetto al passato sulle spese per le transizioni verde e digitale. Ma ci vorrà ben altro. Di solito, poi, non si tiene conto del costo dell’impatto sociale della transizione verde che insieme con le difficoltà ormai strutturali del settore auto europeo è già uno dei temi politici ed economici centrali per la Ue. Tutti i calcoli sulle necessità finanziarie Ue al 2030, compresi quelli del rapporto Draghi, non ne tengono conto.

 Quando era premier in Estonia, la liberale Kaja Kallas, ora “ministra” degli esteri Ue, si era spesa a favore dell’emissione di eurobond per finanziare progetti per la difesa per 100 miliardi di euro. Da quando è stata nominata alta rappresentante per politica estera e sicurezza dell’Unione non ne ha più parlato. Il responsabile dell’economia Valdis Dombrovskis ha indicato recentemente che per finanziare gli investimenti di cui la Ue ha bisogno ci possono essere “nuove risorse proprie o contributi più ampi degli Stati membri o prestiti comuni: tutto questo farà parte delle discussioni sul prossimo bilancio europeo”. Che lo dica lui è importante perché finora ha rappresentato l’anima rigorista a Bruxelles.

 In Germania l’eventualità di nuovo debito comune è materia incandescente: con Berlino è più facile che le discussioni possano avanzare su singoli casi di intervento finanziario comune e non sulla riedizione di un Recovery Fund. Tuttavia tutto è congelato in attesa del responso delle urne. Va sottolineato che anche in Germania le cose non sono ferme come dimostra l’apertura del leader dei conservatori cristiano-democratici tedeschi (Cdu) Friedrich Merz sulla riforma del freno nazionale all’indebitamento, che limita il deficit pubblico allo 0,35% del prodotto interno lordo (corretto dagli effetti del ciclo economico) in determinate circostanze. “Può essere riformato. La domanda è: perché? A quale scopo? Qual è il risultato di una tale riforma? Se il risultato è che spendiamo ancora di più per i consumi e la politica sociale, allora la risposta è no, se è importante per gli investimenti, se è importante per il progresso, se è importante per il sostentamento dei nostri figli, allora la risposta potrebbe essere diversa”. Merz sarà probabilmente il prossimo cancelliere in Germania. In ogni caso, ciò non vuol dire che Berlino aprirà anche un nuovo capitolo sul debito comune a Bruxelles. Tuttavia ciò che non appare possibile oggi, può diventare probabile più avanti.