Che sia stato tirato un respiro di sollievo, anche sui mercati finanziari, è la dimostrazione che la Ue ha fatto la cosa giusta. Soprattutto ha fatto ciò che era atteso e non saranno le circonvoluzioni di quattro giorni di litigioso e alla fine fruttuoso negoziato a scolorire il senso politico del risultato: in tre mesi la Ue ha fatto le mosse che non aveva voluto fare nella crisi del debito sovrano, quando la reazione pubblica venne di fatto demandata ai singoli governi pur con l’intervento di salvataggio attraverso il fondo salva-Stati e, naturalmente, sotto il grande ombrello della Bce che ha tenuto il fronte compatto grazie al “whatever it takes” di Mario Draghi, peraltro mai messo in pratica. Ora la Ue ha costruito un pezzo significativo del suo “whatever it takes”, anche se per carità di patria, cioè per non irritare oltremodo i “frugali” del Nord e anche i tedeschi che non la pensano poi tanto diversamente dai nordici su molti argomenti, si ribadisce con molta nettezza che Next Generation Eu, il ‘pacchetto’ da 750 miliardi frutto dell’emissione di debito comunitario, “rappresenta una risposta eccezionale a una situazione estrema ma temporanea». Non c’è una unione del debito, ma c’è un debito comune (meglio, comunitario perché emesso dalla Commissione europea per conto degli Stati) in una dimensione mai sperimentata prima per non far capitombolare l’Unione. E questa è un’assoluta novità che dà il segno della svolta europea. Ora la Bce può uscire dalla “solitudine” che ha caratterizzato la sua azione a difesa dell’Eurozona e della sua stabilità: politica monetaria e politica di bilancio nelle due dimensioni nazionali e a livello aggregato con strumenti comuni viaggiano allo stesso passo.
Ora si aprono diverse partite. Una negoziale, perché il negoziato tra i governi è solo la prima fase. C’è il negoziato con il Parlamento europeo che non va preso sottogamba: gli eurodeputati devono votare, sono colegislatori. Naturalmente pesano le posizioni nazionali che influenzano direttamente i deputati, contano perfino più delle famiglie politiche di riferimento (peraltro rivelatesi anche in questo frangente inconsistenti visto che le divergenze profonde sulle soluzioni hanno fatto ritrovare l’un contro l’altro armati leader liberali (per esempio l’olandese Rutte e Macron per esempio) come leader popolari (Merkel e l’ungherese Orban) o leader socialisti (Sanchez e la finlandese Marin). Ce n’è per tutti. È difficile che si arrivi a uno scontro epocale tra Parlamento e Consiglio. Tuttavia si aprono discussioni delicate.
Poi c’è la partita della realizzazione di quanto deciso. E qui l’Italia ha chiaramente una grande occasione: dimostrare a sé stessa oltrechè ai partner che è in grado di fare ciò che non è stata in grado di fare finora. I vincoli temporali sono stretti: gli impegni giuridici di un programma nel quadro di Next Generation Eu devono essere contratti entro fine 2023 e i relativi pagamenti devono essere effettuati entro fine 2026. E il 70% delle sovvenzioni a fondo perduto deve essere impegnato nel 2021 e nel 2022. Il restante 30% deve essere interamente impegnato entro fine 2023. Questo è il quadro definito dal Consiglio. Ora toccherà tradurre le indicazioni politiche dei 27 leader in testi giuridici sui quali gli Stati dovranno negoziare ulteriormente. Tra le cose importanti da seguire ce n’è, tra le altre, una che per l’Italia è un test da tripla A: la proposta della Commissione prevede dei vincoli applicativi, 7 anni di tempo per realizzare gli investimenti, 4 anni per le fatidiche riforme (dall’adozione della decisione). Presto per dire se questo quadro reggerà o meno: si aspetta di vedere se ci sarà la replica dello scontro tra frugali e fronte del sud.
Per la partita delle riforme e dei vincoli ai governi, indubbiamente i “frugali” hanno segnato una battuta d’arresto. Infatti, non c’è alcuna possibilità di veto né nelle condizioni concordate. Le decisioni dell’Ecofin saranno prese a maggioranza qualificata, nessuno deciderà all’unanimità. In ogni caso Austria, Danimarca, Svezia e Olanda non sono in grado di formare una minoranza di blocco (neppure con la Finlandia aggiunta) per bocciare un piano nazionale per la ripresa e la resilienza non ritenendo “soddisfacente” il conseguimento degli obiettivi “intermedi e finali” del piano. I primi sono quelle “pietre miliari” che nella tradizione dei salvataggi degli Stati (vedi Grecia) si traducevano in passaggi normativi o amministrativi necessari per raggiungere un obiettivo, ai quali era subordinato l’esborso delle “tranche” dei prestiti. Certo, se del caso viene investito il Consiglio europeo, cioè i massimi responsabili di governo, la Commissione non può decidere nel merito “fino a quando il prossimo Consiglio europeo non avrà discusso la questione in maniera esaustiva». È ovvio che sia così. Tuttavia non è prevista una decisione del Consiglio europeo. Il termine “esaustivo” è ambiguo. Che cosa significhi il termine esaustivo non è chiarissimo: può essere un elastico da tirare per bloccare o per sbloccare a seconda dei rapporti di forza. È stato scelto per questo perché è andato bene a tutti.
Viene messo in piedi un meccanismo che rientra pienamente nella tradizione delle soluzioni Ue: può essere apparentemente pesante, certosino, ma nello stesso tempo permettere conclusioni inaspettate. Naturalmente in un senso o nell’altro. In questo caso tuttavia è evidente una cosa: sull’azione – o sulla non azione – per le riforme e per il rispetto delle raccomandazioni europee per rafforzare l’economia e la stabilità sarà esercitata una pressione politica molto più intensa. Pressione politica che potrà facilmente combinarsi alla pressione sui mercati se il Paese in questione non dovesse rispettare gli impegni assunti, non fare le riforme annunciate o imboccare una strada considerata rischiosa per la stabilità dell’intera area. Inoltre, è altamente probabile che le divergenze emerse in questa occasione, con i “frugali” contro tutti per una specie di resa dei conti (esplicitamente diretta contro la Commissione europea per la sua gestione del patto di stabilità), riemergeranno nel momento in cui a un certo punto nel 2021 si dovrà decidere se tornare alle regole di bilancio per ora sospese per il Covid-19 e come riformarle perché non piacciono più a nessuno spesso per opposti motivi. Intanto però il loro tentativo di imporre il veto come chiave di volta per le decisioni politiche, non è andato in porto.
Per l’Italia l’accordo Ue è un’occasione importante dal punto di vista delle risorse mobilitate (mobilitabili) e dal punto di vista politico e del governo Conte. Nel quadro di Next Generation Fund in tutto si tratta di 209 miliardi. Ma sul piatto “europeo” non c’è solo questo. C’è il pacchetto precedente già acquisito. I prestiti del Meccanismo europeo di stabilità valgono potenzialmente 37 miliardi (se cioè l’Italia li chiedesse); il programma di sostegno alla cassa integrazione vale 29 miliardi (l’Italia li ha già chiesti); i prestiti speciali anticrisi Bei per le imprese valgono 35 miliardi (se ci sono i progetti sono garantiti); infine oltre 7 miliardi di risorse residue del bilancio Ue 2014-2020 senza co-finanziamento. In tutto 108 miliardi. Sommati alla partita sdoganata questa mattina alle 5,31, si arriva a 317 miliardi (280 senza i prestiti Mes) di un’Europa che questa volta ha battuto un colpo. 81,4 miliardi sono sussidi a fondo perduto.