E’ noto che le assenze spesso sono più fragorose delle presenze e questo è anche il caso dell’ultimo vertice dei capi di stato e di governo europei che si è appena chiuso: appare completamente sparito dal radar il grande tema dell’economia, la debolezza della ripresa e la parzialità della risposta degli Stati e della Ue in quanto tale. Non erano attese discussioni né decisioni e il solo a parlare di economia è stato il presidente della Bce Mario Draghi. Che al bagaglio già noto di analisi e valutazioni, ha aggiunto la lista dei rischi strutturali e politici: da Brexit a Trump al lungo e imprevedibile ciclo elettorale in paesi chiave della zona euro. Il vertice Ue di chiusura 2016 non passerà alla storia, ma potrà essere ricordato per non aver speso neppure una parola sull’idea della Commissione di realizzare una manovra di bilancio espansiva nella zona euro di 50 miliardi per rafforzare la domanda. A bocciarla erano già stati i ministri finanziari. Silenziosamente.
Il discorso di Draghi ai ‘28’ e la misera fine della proposta ‘fiscale’ della Commissione europea sono legate. Non perché Draghi ne fosse uno sponsor (nelle scorse settimane aveva evitato di pronunciarsi nel merito), ma perché una espansione di bilancio nei paesi della zona euro che hanno lo spazio per finanziarla per una ‘manovrona’ pari allo 0,5% del pil dell’unione monetaria potrebbe/dovrebbe essere il complemento logico dell’espansione monetaria condotta a fatica dalla Bce. Cominciamo dall’elenco di Draghi. Sbaglierebbero i leader, questo il succo del suo ragionamento, a prendere sottogamba i cambiamenti del contesto politico e del contesto monetario, che probabilmente sono destinati a durare nel tempo e alcuni dei quali sono “strutturali”. Il combinato disposto di tassi di interesse globali in salita e rischi per la stabilità delle politiche economiche e di bilancio non solo in Europa può, indica una fonte europea ricostruendo il discorso del presidente Bce, “far diventare visibili le debolezze di alcuni paesi della zona euro sia perché non c’è convergenza tra le economie, sia perché non c’è rispetto delle regole del patto di stabilità, sia perchè l’unione monetaria è incompleta”.
Tra i rischi per la stabilità delle politiche (oltre agli effetti economici e finanziari ‘puri’) Brexit, naturalmente, e le scelte della nuova amministrazione americana (in relazione al commercio internazionale, alla regolazione dei mercati). Ciò rende lo scenario economico incertissimo. La conclusione: l’aumento dei tassi può portare a pressioni sui paesi ad alto debito, per i quali “l’approccio al consolidamento dovrebbe essere predominante”, le riforme strutturali non vanno frenate.
Quanto all’idea di una ‘svolta’ di bilancio nella zona euro, era già dato per scontato che il Consiglio europeo nulla avrebbe detto e fatto, dopo che l’Eurogruppo, dieci giorni fa, aveva affossato l’idea junckeriana. Bocciata in partenza dalla coppia Schaeuble-Dijsselbloem (ministro tedesco e ministro olandese), nell’Eurogruppo erano rimasti in pochi a caldeggiare la leva per una ‘fiscal stance’, una linea di bilancio in termini aggregati per la zona euro marcatamente attivista. Peraltro, alla riunione dell’Eurogruppo, Padoan non aveva partecipato (Renzi si era appena dimesso) e Padoan in linea di principio era uno sponsor dell’iniziativa della Commissione.
Naturalmente, il giudizio sulla posizione dell’Eurogruppo è diverso a seconda di chi lo pronuncia. Lo stesso Tesoro italiano, per esempio, si era dichiarato non così pessimista. Nel documento Eurogruppo si afferma che gli 8 Stati a rischio di non rispettare le regole, come l’Italia, “devono prendere misure addizionali” di bilancio (senza specificare quando e in quale misura). Ma si aggiunge che “alcuni Stati membri che hanno superato gli obiettivi di medio termine “(cioè sono in surplus –ndr) possono avere spazio per investimenti allo scopo di aumentare il potenziale di crescita”. Il riferimento a un’azione pro crescita (da parte di Germania e Olanda sostanzialmente) c’è, ma molto debole, troppo cauto. Inesistente l’effetto annuncio, che pure conta per plasmare nuove aspettative. Un conto è dichiarare un obiettivo, costruire una narrazione, collocarlo in una strategia convincente, un altro conto appiattirne il significato, non includerlo nell’agenda delle scelte fondamentale di questa fase.
Non stupisce che le cose vadano così: in un anno elettorale in cui Olanda (marzo), Francia (aprile-maggio) e Germania (autunno) vanno alle urne, nessuno di questi ‘attori’ vuole uscire dal seminato. A parte la Francia, in realtà politicamente debole da tempo nel consesso europeo, Germania e Olanda sono i paesi forti del fronte più ortodosso in politica economica e di bilancio. A fronte di un Draghi che ricorda ai ‘28’ capi di stato e di governo che l’incompletezza politica della zona euro (sostanzialmente una moneta unica senza un’autorità politica sui bilanci adeguatamente unitaria) è un fattore di incertezza politica generale che incide negativamente sull’economia, c’è un Dijsselbloem iper-realista che dice questo: “Il periodo per i grandi salti nell’integrazione europea è arrivato alla fine, l’Europa non è la risposta per tutto, dobbiamo essere molto più critici sull’espansione della Ue, approfondimento o allargamento, geograficamente o politicamente, occorre rafforzare ciò che abbiamo costruito finora”. Un paio di mesi fa Schaeuble aveva nuovamente attaccato la Commissione europea per il modo in cui conduce la sorveglianza di bilancio, perché “ha scelto di essere più politica e ciò rende più difficile imporre il rispetto delle regole”. Indicando che altri potrebbero svolgere il ruolo di guardiano del patto di stabilità (per esempio il fondo salva-stati Esm, che è un organismo dei 19 governi).
Ecco perché i tempi per la maturazione di ‘svolte’ nell’Eurozona sono rimandati e nel frattempo si traccheggia. Tanto per dire della difficoltà a mantenere un equilibrio: fino a qualche ora prima della conclusione del Vertice Ue non era acquisito che il riferimento al completamento dell’unione bancaria nel documento conclusivo dovesse fondarsi sulla necessità sia di ridurre sia di condividere i rischi (tra i 19 Stati). Ci si era limitati a ricordare solo l’elemento della riduzione. Su questo è intervenuta anche l’Italia per riequilibrare, appunto. Non è una questione di parole: il negoziato sul regime unico europeo di garanzia dei depositi è fermo da mesi proprio perché c’è un contrasto profondo sulla logica dell’unione bancaria per cui i problemi sistemici sembrerebbero originati solo da cattive pratiche dei singoli Stati (ciò nulla toglie alle evidenti responsabilità italiane per Mps e dintorni). Andrà avanti così fino alle elezioni tedesche. E magari anche oltre.