Due messaggi di ‘policy’ importanti sono stati lanciati nel corso di quest’ultima settimana che vanno dritti al cuore dei problemi di fronte all’Eurozona da mesi e ancora lontani dall’essere risolti: uno è arrivato da Mario Draghi, l’altro dalla Commissione europea. Draghi ha intensificato l’azione pedagogica rivolta principalmente all’opinione pubblica e a una parte delle ‘élites’ politiche tedesche per smontare l’idea, accreditata anche dalla Bundesbank e da influenti responsabili politici della Cdu, che la politica monetaria della Bce è un danno per i risparmiatori (tedeschi). E un allarme di tipo pedagogico ha lanciato la Commissione Juncker collegando direttamente l’aumento dei rischi di peggioramento dell’economia, peraltro maggiori di tre mesi fa, all’incapacità politica europea di trovare “soluzioni comuni” alle sfide aperte, a cominciare dalla gestione dei flussi migratori. E’ la dimostrazione che l’assenza di una visione politica condivisa sulle scelte da compiere a breve depotenzia quanto la Bce sta facendo per evitare la paralisi economica.
Non è una novità che il presidente della Bce ribadisca che l’alternativa all’espansione monetaria a tappe forzate è una zona euro inchiodata nella recessione. E’ una novità, invece, la minuziosa spiegazione di quanto sta accadendo ai risparmiatori a causa di un periodo prolungato di tassi di interesse a quota sopra e sotto zero. Spiegazione doverosa e tanto più necessaria date le forti polemiche in Germania. Già nel novembre 2013, quando la Bce portò il tasso centrale allo 0,25%, la progressista Sueddeutsche Zeintung titolava “Risparmiatori espropriati e azionisti ricchi” e il presidente delle Casse di risparmio tedesche Georg Fahrenschon dichiarava: “I bassi tassi di interesse causano ai risparmiatori perdite durevoli che assomigliano quasi a un esproprio”. Nelle ultime settimane Draghi è stato messo in croce da vari parlamentari della Cdu con l’accusa di “minare la credibilità della Bce” e pure dal ministro delle finanze Schaeuble, che lo aveva accusato di essere “responsabile al 50%” del recente successo elettorale alle regionali del partito anti-euro e anti-immigrazione Afd.
A fine aprile, in un’intervista inusuale concessa volutamente alla Bild , Draghi aveva così spiegato che tassi di interesse più elevati non garantiscono necessariamente guadagni maggiori. Negli anni ’90, per esempio, “abbiamo avuto spesso un tasso di inflazione ancora più alto e quindi si potevano comprare meno cose con il denaro ricevuto, alzare i tassi oggi sarebbe negativo per l’economia e scatenerebbe disoccupazione da deflazione e recessione”. Questa settimana a Francoforte, Draghi ha riparlato dello stesso tema riconoscendo innanzitutto che tassi di interesse molto bassi e molto a lungo “non sono innocui”, visto che riducono i redditi incamerati da banche, fondi pensioni e assicurazioni in una fase in cui la loro redditività è debole, devono ridurre l’indebitamento e nello stesso tempo rafforzare il patrimonio. E visti gli effetti sul reddito dei pensionati, una ‘costituency’ molto importante nelle economie avanzate: il loro consumo durante il pensionamento dipenderà molto dal ritorno economico dei risparmi. Questo è il motivo per cui in Germania, paese in cui l’invecchiamento della popolazione è rapido e viene percepito come una minaccia grave dalla gente comune e dai politici, è così diffusa una reazione negativa dell’opinione pubblica alle scelte della Bce.
Il presidente della Bce però ha ricordato come i tassi di interesse bassi non siano il problema, ma il sintomo del fatto che nel mondo c’è una domanda di investimenti insufficiente ad assorbire il risparmio disponibile. E’ l’eccesso di risparmio a spingere al ribasso i tassi di interesse. E allora? Allora va abbandonata la visione dell’uomo ridotto a una sola dimensione: questo il messaggio di Draghi. La dimensione del risparmiatore contrapposto a quella del lavoratore disoccupato o a quella del padre o della madre di un giovane per il quale si prospetta un futuro difficile (spesso tutti questi ruoli si sommano in una sola figura). Tutti, compresi i risparmiatori e i prestatori di denaro, “hanno lo stesso interesse: che l’economia cresca in misura sufficientemente robusta per generare reddito sufficiente”. Quel che conta è se, “in ultima analisi viene protetto l’interesse dei risparmiatori nel lungo termine”. Solo una visione completa che vada oltre gli effetti contemporanei “non innocui” del ‘quantitative easing’ può dunque salvarci dalla paralisi.
Al rischio di paralisi allude anche il rapporto di previsione della Commissione europea, che pone un tema sul quale da tempo punta l’attenzione il presidente Juncker: le divisioni politiche tra i governi sugli sviluppi dell’unione monetaria, dall’ulteriore condivisione dei rischi bancari e di quelli relativi agli choc economici alla gestione della crisi dei migranti, costituiscono un pericolo costante non solo per la tenuta politico-istituzionale dell’Unione europea ma anche per l’economia.
Nell’analisi dei rischi di peggioramento del ciclo economico, la Commissione precisa: “Fallire nella definizione di soluzioni comuni a sfide comuni (per esempio gestire i flussi migratori) può aumentare l’incertezza che ostacola la crescita e potrebbe colpire in modo particolare i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese”. Lo stesso impatto negativo potrebbe esserci (anzi aggiungersi) con il ricorso generalizzato alle barriere alle frontiere dell’area Schengen e a misure che creino nuovi ostacoli al mercato interno, considerato finora la principale leva di crescita economica dell’intera area europea. Non è una bella prospettiva con una domanda globale in fase di rallentamento, flussi commerciali previsti deboli e una crescita dei mercati di esportazione delle merci Ue che sarà meno robusta di quanto atteso a febbraio.
Nel rapporto di previsione macroeconomica, la Commissione evidenzia solo il nesso stretto fra paralisi politica e rischi economici: “L’incertezza politica al di là della sfera di competenza dell’economia, ma con ramificazioni economiche potenzialmente estese, è ampia: rimuoverla può favorire investimenti più rapidi”, scrive il dg degli Affari economici Marco Buti. E ancora: “Le serie incertezze all’interno dell’Europa derivano da vari problemi e circostanze, tuttavia hanno a che vedere con uno stesso grande: la capacità e la volontà di cercare e attuare soluzioni comuni a sfide comuni”.
L’accumularsi dei rischi in Europa (con il condimento dell’incertezza Brexit che costituirebbe un fattore di accelerazione di una crisi dalle proporzioni non stimabili) non spinge però Bruxelles a seguire l’invito del Fondo monetario internazionale a definire fin d’ora piani di emergenza nel caso si materializzino in futuro rischia di peggioramento della situazione (ne ha parlato qualche settimana fa il capoeconomista Maurice Obstfeld).