L’Eurozona è entrata in una nuova fase passando dalla massima attenzione per garantire la stabilità finanziaria alla necessità di sostenere la crescita. E’ un messaggio già sentito, ma questa volta quando il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem lo ha ribadito si è colta la vera e diffusa preoccupazione di non riuscire ad agire in fretta per uscire dal rischio di una stagnazione economica di lungo periodo. Nel ‘cantiere’ dei ministri finanziari ci sono molte idee, proposte per rilanciare gli investimenti pubblici e privati. I governi concordano che dopo l’azione della Bce è improrogabile “l’accelerazione” delle riforme strutturali e degli investimenti. Il problema è quali margini e quanto margine di manovra possono offrire i bilanci pubblici. E’ la pressione francese per ottenere (di nuovo) due anni di tempo in più per portare il deficit/pil sotto il 3% nel 2017 a complicare il confronto tra i ministri. Non c’è una ‘censura’ della ‘solita’ Francia, ci si rende conto che una risposta a Parigi dovrà essere data, ma si parte in salita. Dijsselbloem sintetizza così: è l’avvio di una discussione, non la fine.
Di fronte al caso francese non c’è stata la classica levata di scudi: questo è davvero un segno della gravità della situazione. Parigi vuole spostare al 2017 l’impegno a portare il deficit/pil sotto il 3% dal 4,4% di quest’anno. Chiede altri due anni di tempo in più, dopo averne già ottenuti altrettanti senza fare poi molto. La stagnazione economica europea, pure rilevante per il peggioramento dei conti pubblici, non spiega tutto. La reazione europea è cauta perché vanno evitati due rischi dall’effetto contrapposto. Da un lato ci si rende conto dell’esigenza politica di Hollande di sopravvivere politicamente: la debolezza della sua leadership non può però essere puntellata a Bruxelles. Dall’altro lato ci si rende conto almeno una parte dei rilievi francesi hanno un fondamento. Si procederà a passi lenti. “Ci sarà un trattamento uguale per tutti, non fa differenza si tratti di un piccolo paese o di un grande paese”, avvisa il commissario Jyirki Katainen.
Il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan vola alto sulla strategia per sostenere la crescita e basso sui temi della flessibilità sui deficit. Centra le discussioni sulla sostanza delle riforme e delle proposte per rilanciare gli investimenti. C’è sul tavolo la creazione di un fondo specifico frutto dell’impegno comune di Bei e banche pubbliche di investimento nazionali (in Italia la Cassa Depositi e Prestiti). Si preme per un nuovo aumento di capitale della Bei. Poi le tante proposte per strutturare una “finanza per la crescita”. Quanto alle riforme strutturali, c’è accordo perché sia l’Eurogruppo il “regista” (Dijsselbloem ha parlato di ‘driver’) del coordinamento dell’azione dei governi, mentre la Commissione europea sorveglierà “passo per passo” se e come le riforme che potenziano la crescita e che intervengono sui bilanci pubblici vengono attuate.
Padoan non parla di flessibilità, di questa parola nei documenti preparati dalla presidenza italiana non c’è traccia. La flessibilità verrà dopo a fronte di riforme approvate, fatte (non annunciate), con un percorso credibile di attuazione. Il ministro ribadisce che gli impegni di bilancio saranno rispettati: intende dire che il deficit/pil non supererà il 3%. Altra cosa è la cifra esatta del deficit: l’economia è peggiorata, dunque l’obiettivo di deficit non può restare immutato.
A metà ottobre Bruxelles riceverà i progetti di bilancio 2015, toccherà alla Commissione valutarli (seconda metà di novembre), sulla base delle nuove stime Ue si capirà se qualche paese rischia di subire dei richiami preventivi. In primavera la valutazione relativa al criterio del debito: con riforme strutturali già in pista, dei risultati della ‘spending review’, l’Italia spera che sia riconosciuto il lungo periodo di recessione come ‘circostanza eccezionale’ per allentare l’azione di riduzione del debito.