Nell’ultimo vertice dell’Organizzazione di Shangai per la cooperazione, di cui fanno parte Russia, Cina e quattro paesi dell’Asia centrale, si è parlato di ridurre le transazioni commerciali in dollari. Nessuna decisione è stata presa, ma è già prevista una discussione più formale a fine anno in occasione di un vertice finanziario della OSC in Kazakistan. Gli scambi tra Russia, Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan sono una goccia nell’oceano del commercio globale (meno dello 0,3%) eppure la notizia ha alimentato i rumori (e per qualcuno i timori) di un dollaro detronizzato. Recentemente il quotidiano britannico The Indipendent ha pubblicato un articolo secondo cui monarchie arabe, Russia, Cina, Brasile, Giappone e addirittura la Francia sarebbero d’accordo per denominare le transazioni sul petrolio in un paniere di tre valute: euro, yen e yuan. Ciò che ha sconcertato è l’immediata smentita dei governi citati dal quotidiano, il che la dice lunga sul nervosismo che c’è in giro.
E’ vero che il calo del dollaro colpisce i paesi esportatori di petrolio, ma è anche vero che finora il gioco si è retto sull’ottima combinazione cambio-prezzi del greggio, gioco che il cartello Opec e la Russia non sono totalmente convinti di abbandonare. Oggi gli incassi con un barile a 75 dollari e un dollaro a 0,66 euro sono migliori rispetto a dicembre quando il dollaro valeva 0,8 euro e il barile quotava 30 dollari. La cosa certa è che l’indebolimento del dollaro (ampiamente tollerato se non ricercato dalle autorita’ politiche e monetarie americane) non ha nulla a che vedere con tali rumori di sottofondo o ipotesi di rottura dell’attuale quadro valutario. E’ piuttosto dovuto al basso livello dei tassi di interesse negli Usa, alla minore percezione del rischio su scala globale: questi due fattori hanno prodotto una inversione di una parte consistente dei flussi di investimento in attività rifugio dei quali, come segnala l’ultimo Bollettino Bce, “aveva tratto beneficio il dollaro dopo l’inizio della crisi finanziaria”. Il biglietto verde è il bersaglio del “carry trade”: se i tassi americani sono bassi (fra 0 e 0,25%) è molto conveniente indebitarsi in dollari e investire in valute con rendimenti più elevati.
In ogni caso la debolezza del dollaro nei confronti di un’ampia serie di valute e la necessità americana di forzare sulle esportazioni per consolidare la ripresa alimenta comunque negli Usa il dibattito sul futuro del biglietto verde. L’economista Fred Bergsten, del Peterson Institute for International Economics di Washington, ha appena pubblicato una lunga analisi in cui afferma che “è ora di riconsiderare il ruolo internazionale del dollaro” nell’interesse nazionale americano. Due i cambiamenti suggeriti da Bergsten. Il primo è far evolvere l’attuale sistema dei cambi in un sistema “multivaluta” nel quale le altre grandi divise condividano con il dollaro una posizione internazionale nei mercati privati. L’euro, già rivale del dollaro nelle riserve e nelle emissioni di bond è il primo candidato. Il suo status è destinato a crescere, dice Bergsten, e “diventerà un concorrente a pieno titolo quando i paesi dell’Eurozona adotteranno una politica di bilancio comune” (cosa di là da realizzarsi). Il secondo candidato è lo yuan a patto che diventi convertibile per le transazioni finanziarie e di parte corrente e la Cina alleggerisca i controlli di capitale. L’altro cambiamento consisterebbe nell’emissione di diritti speciali di prelievo (sono fondati su un paniere di cui fanno parte dollaro, euro, yen e sterlina) da parte del Fondo monetario in modo da alimentare le riserve senza incorrere ampi surplus commerciali.
Nell’Eurozona la prudenza è massima. Più che del futuro ci si preoccupa dell’oggi, di un euro a quota 1,50 sul dollaro, del fatto che gli Usa di fatto stanno facendo leva anche sul cambio debole per risollevare l’economia. A quota 1,40 l’euro rappresenta già un serio problema per l’industria esportatrice. L’apprezzamento del cambio effettivo del 2% in due anni riduce la crescita dello 0,2%. Il tasso di cambio effettivo nominale dell’euro misurato sulle valute di 21 partner commerciali dell’Eurozona si è apprezzato in settembre dopo essere rimasto stabile in estate. L’apprezzamento è stato di circa il 2% rispetto a fine giugno (di oltre il 4% da gennaio 2008) e del 2,8% rispetto alla media del 2008. La debolezza del dollaro a questo punto ha effetti “avversi” per l’Eurozona sulla quale si scarica la debolezza delle altre valute.
Quanto al futuro, a Bruxelles invitano a non scambiare lucciole per lanterne. La quota dell’euro nelle riserve internazionali è del 25,9% (alla fine del primo trimestre 2009), con un aumento del 4,6% rispetto al 1999. Le riserve in dollari sono il 65% del totale. Nel mercato internazionale delle emissioni di titoli di debito, se calcolata a tassi di cambio costanti la quota in euro è del 46,7% contro il 37,5% in dollari; contando i titoli emessi in una valuta diversa da quella dell’emittente l’euro detiene una quota del 32,2% mentre il dollaro del 44,7%. Il 90% delle transazioni in valuta coinvolge il dollaro, solo il 41% l’euro. Quanto all’uso dell’euro nel commercio internazionale il dollaro resta la divisa di riferimento più importante mentre l’euro sta adesso cominciando a emergere in tale ruolo. Questa la conclusione dell’ultimo rapporto di Bruxelles sull’Eurozona: anche se l’euro “è per molti aspetti una valuta internazionale la crisi finanziaria ha prodotto effetti limitati sulla posizione relativa delle valute, di conseguenza il significato di piccoli cambiamenti nel breve periodo nelle quote non deve essere sovrastimato”. Per esempio non è diminuita la convenienza all’uso permanente di una sola valuta (il dollaro) per la quotazione dei prezzi per le materie prime. L’acquisizione di uno statuto “completo” di valuta internazionale resta “un processo di lungo termine”.