I governi che hanno accelerato la corsa a ridurre i deficit pubblici, negli ultimi giorni Italia e Spagna, hanno ottenuto il plauso della Commissione europea. Naturalmente occorre aspettare l’analisi del dettaglio delle misure di bilancio, ma la conclusione non si discosterà da questa positiva valutazione preliminare. D’altra parte la sterzata sulle manovre finanziarie era stata concordata nelle scorse settimane tra i ministri dell’economia. Nulla di formale, naturalmente, tanto più che l’Eurogruppo era e resta un gruppo informale (per prendere decisioni vincolanti deve essere convocato l’Ecofin a 27 nel corso del quale votano solo i sedici membri dell’unione monetaria). Sta di fatto, però, che i ministri hanno assunto un impegno e lo stanno onorando. In questa fase, le manovre finanziarie costituiscono la ‘seconda gamba’ dell’azione anti-crisi. La prima è costituita dal piano finanziario con il sostegno alla Grecia (110 miliardi di euro tra prestiti governativi bilaterali e Fmi) e la rete di sicurezza stesa sui paesi a rischio di finire come la Grecia (750 miliardi sempre ripartiti tra garanzie governative e intervento Fmi). Basterà, non basterà? Nessuno può dirlo. Per ora si possono solo registrare due fatti: l’impatto duro della crisi Eurozona sui mercati si è via via ammorbidito, ma la tensione resta alta data l’estrema incertezza sul livello dell’indebitamento e sull’esposizione delle istituzioni finanziarie; si registra una crescente preoccupazione per l’effetto recessivo della stretta sui bilanci pubblici.
Per quanto riguarda le banche è passato sotto silenzio il duplice richiamo del responsabile dell’Antitrust europeo Almunia: hanno sempre meno bisogno delle garanzie pubbliche e dei sostegni alle ricapitalizzazioni, staremo comunque attenti a ritirare le stampelle pubbliche perché non escludiamo colpi di coda nel momento in cui altre ristrutturazioni potrebbero aggiungersi alle quaranta in corso di discussione. Per quanto riguarda l’impatto sulla debole ripresa appena faticosamente sbocciata, fa testo il messaggio dei ministri dell’economia dei paesi Ocse: attueremo il consolidamento dei bilanci pubblici, necessario per fronteggiare una crisi del debito sovrano, in modo che non metta a rischio la crescita.
Entrambi i messaggi sembrano contenere un ossimoro, una indicazione e – quasi – il suo contrario. Sicuramente riflettono perfettamente la situazione: ci troviamo ancora su un crinale dal quale è facilissimo scivolare malamente. L’ultimo rapporto Ocse ha illustrato chiaramente le virtù della ripresa in atto (trainata dai paesi emergenti e dagli Usa) quanto i rischi che non sono così improbabili. La vera sfida, sostiene l’Ocse, è che molti paesi stanno accelerando simultaneamente la stretta di bilancio e date le dimensioni dei tagli e la loro perfetta sincronia potrebbe risultarne indebolita la domanda in singoli paesi. Naturalmente, non è detto che ciò accada. Circa il 70% dell’economia Eurozona è costituita da Germania-Francia-Italia e non ci sono segni che questa ‘triade’ stia deragliando (sebbene l’Italia crescerà secondo l’Ocse meno di Germania e Francia sia quest’anno che l’anno prossimo e sebbene la Germania abbia rinunciato anche questa volta ad assumere il ruolo di ‘locomotiva’ della crescita). Non bastano Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia a modificare il quadro generale. Inoltre, da quando è scoppiata la tensione sul debito sovrano, gli effetti reali delle nuove difficoltà hanno riguardato solo fiducia e livello dei consumi in Francia e Germania.
Sta di fatto, però, che la riduzione rapida e generalizzata dei deficit pubblici quest’anno e nel 2011, ancorché necessaria, avrà inevitabilmente un effetto depressivo. Nell’Eurozona il taglio del deficit previsto sarà di 2,6 punti percentuali del pil tra il 2010 e il 2012, di 3,8 punti tra il 2010 e il 2013 se non ci sarà nient’altro a sostenere l’attività. Una valvola di sfogo potrebbe arrivare dal cambio e proprio in questo senso vanno le ultime indicazioni dell’Ocse. Il capoeconomista Piercarlo Padoan ha dichiarato di non essere preoccupato da un ulteriore indebolimento dell’euro. Anzi, il contrario. Molti pensano che il deprezzamento del cambio euro/dollaro possa costituire a pieno titolo l’equivalente di un piano di rilancio ‘esterno’ all’Eurozona. Sì, ma deprezzamento di quanto? L’economista Patrick Artus di Natixis ha fatto questo calcolo: per annullare l’effetto della riduzione rapida dei deficit pubblici sulla crescita sarebbe necessario un tasso di cambio attorno all’1 a 1, un euro uguale a un dollaro. In chiusura di settimana un euro vale circa 1,23 dollari, dunque siamo ancora molto lontani. E poi, se gli impegni di consolidamento dei bilanci fossero tali da far superare le incertezze e i dubbi dei mercati sulla tenuta del debito sovrano nell’Eurozona, con ogni probabilità l’euro si apprezzerebbe e a quel punto addio stampella esterna.