Ue, operazione guanto di velluto con Meloni, ma la maggioranza sul “trio” da nominare c’è

Che sia in corso una operazione quantomeno di “maquillage” diplomatico per spurgare il confronto sulle nomine, che avverrà questa sera a cena tra i Ventisette leader Ue, dal malanimo, dalla contropposizione frontale, dallo spirito di rivalsa è un fatto. Si tratta di una operazione all’insegna di toni morbidi verso la premier italiana Giorgia Meloni. In questo senso vanno le parole del premier polacco Donald Tusk, diventato sempre più un personaggio chiave degli equilibri politici europei: “Non c’è Europa senza l’Italia, non c’è decisione senza Giorgia Melon, per me è ovvio”. Il cancelliere Olaf Scholz vuole levigare i contrasti e parla dell’accordo popolari-socialisti-liberali sulle nomine alla guida di Commissione, Consiglio europeo e “servizio esteri” Ue come di “un’intesa politica”, di una mera “posizione da discutere con tutti gli altri” perché “tutti i Ventisette sono ugualmente importanti”. Però, a mo’ di precisazione, aggiunge che i leader hanno la responsabilità “di avanzare una proposta saggia che possa contare sulla maggioranza nel Parlamento”. A un certo punto ci si conta sui voti.

 Probabilmente ci si rende conto che l’intesa a tre sul raddoppio del mandato a Ursula von der Leyen (Ppe), sul socialista portoghese Antonio Costa al Consiglio europeo e sulla liberale estone Kaja Kallas alla politica estera/sicurezza, è stata troppo platealmente strombazzata. Tuttavia  non è la prima volta che accade e la storia dei vertici e delle decisioni europee è costellata di pre-vertici a gruppi più o meno ristretti, dei vari assi a partire, naturalmente, dall’asse centrale costituito dal “motore” franco-tedesco. Motore che questa volta funziona maluccio con la Francia alle soglie di un “ribaltone” verso destra e con la coalizione di governo in Germania debole come non mai.

 Perché i sei leader dei tre partiti che hanno stretto il patto sulle nomine abbiano voluto presentare in quel modo l’accordo non è chiaro: da un lato c’è il riflesso condizionato che deriva dalla centralità politica del terzetto, che peraltro ha i numeri per una maggioranza al Consiglio e almeno sulla carta in Parlamento; dall’altro lato, essendo prevalsa l’estrema politicizzazione del confronto sulle nomine e avendo condotto Ecr (partito di cui è presidente Meloni) e Id (partito cui aderiscono Lega e partito di Le Pen) una campagna elettorale tutta contro gli attuali assetti Ue, era difficile aspettarsi i guanti di velluto. Poi c’è la pressione all’interno del Ppe per differenziare Meloni dal resto dell’Ecr.

  Dal canto suo la premier Meloni non ha risparmiato nulla ai partner rifiutando la logica dell’accordo preconfezionato, contestando la lunga attesa per l’inizio dell’ultimo Consiglio europeo dieci giorni fa a Bruxelles, contestando il fatto che il terzetto Ppe-S&D-Re andrebbe contro le indicazioni del corpo elettorale europeo. In realtà è proprio questa la lettura non accettata a Bruxelles: il voto ha spostato a destra l’asse politico del Parlamento europeo, ma non ha creato i numeri per un “ribaltone” delle alleanze. Mentre i governi in carica restano gli stessi e rappresentano i propri Paesi al Consiglio europeo, dove i numeri sono abbastanza chiari: i sei negoziatori Ppe-S&D-Re che hanno pattuito il terzetto per i vertici Ue rappresentano 22 Stati e l’80% della popolazione Ue. Lo ha detto esplicitamente il polacco Tusk. Sulle nomine il Consiglio europeo vota a maggioranza qualificata per la quale è necessario raggiungere il 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione Ue.

 Pubblicamente contro si è pronunciato solo l’ungherese Orban, mentre la posizione politica di Meloni è radicalmente critica sul metodo seguito, molto meno sul contenuto e quanto pare ancora meno sul raddoppio del mandato a von der Leyen. Poi Meloni potrebbe indirizzare il suo scontento su Costa e forse anche su Kallas, respingendo o astenendosi sui loro nomi. D’altra parte qualche altro leader potrebbe fare lo stesso senza però – questa l’aspettativa – mettere in dubbio il risultato finale. Non ci sono segnali che il premier ceco Fiala (l’unico leader in carica dell’Ecr insieme a Meloni) si pronunci contro le nomine sul tavolo. E la Slovacchia, vicina alle posizioni di contestazione della Ue, non appare inclinata a una posizione diversa.

 La stessa Meloni una settimana fa alla festa del Giornale aveva ammesso che “il risultato delle elezioni in Europa ha dato un segnale di diversificazione non sufficiente a cambiare completamente il quadro, Ppe e Pse sono i due principali gruppi politici, non disegna un cambio di passo”. Un cambio di passo sul quale puntava la sua campagna elettorale, come quella dell’Ecr e di Id. In sostanza, un’ammissione in contraddizione con quanto indicato dalla stessa premier in Parlamento ieri sul messaggio degli elettori europei espresso con il voto.

 Il processo in corso è oltremodo complicato: si mischiano il piano dei partiti europei, che hanno potere di decisione nel Parlamento, e il piano della responsabilità dei governi al Consiglio europeo che non necessariamente – anzi, quasi mai – aderisce al primo. Quindi il gioco su un tavolo non può essere la fotocopia del gioco sull’altro tavolo.

  A questo punto entrano in gioco due fattori. Il primo fattore è il confronto sull’agenda politica, il secondo è la posizione che ricoprirà l’Italia nella nuova Commissione. Non a caso è la sequenza dei due punti all’ordine del giorno della cena dei leader: prima gli obiettivi politici della legislatura, poi i posti. Sul tavolo è pronta una bozza di dichiarazione di poche pagine nella quale sono affrontati le questioni più rilevanti: far diventare l’Europa “forte, sicura e influente”; difesa coordinata; nuova fase di allargamento; rendere la transizione verde un successo rafforzando la competitività e l’industria europea; meno dipendenza dalle catene del valore globali (leggasi Cina); immigrazione e protezione delle frontiere esterne. È probabile che sugli obiettivi strategici Meloni voglia marcare dei punti programmatici precisi: dalla gestione dell’immigrazione al di fuori dei confini Ue alla frenata sullo stop ai nuovi veicoli a benzina e diesel dal 2035 salvaguardando esplicitamente la “neutralità tecnologica”. In ogni caso è difficile si vada oltre qualche ritocco a un documento attualmente abbastanza vacuo: perché non lo sia occorrerebbe aprire discussioni molto importanti, ma anche molto divisive. Semmai von der Leyen dovrà trarre tesoro dal confronto al momento delle sue dichiarazioni programmatiche quando dovrà guadagnarsi i voti del Parlamento a Strasburgo a luglio.

 Il secondo fattore dovrebbe essere la base per concretizzare la distensione con l’Italia. Sapendo però che la posizione specifica del membro italiano del prossimo esecutivo Ue non potrà essere resa nota, nel caso fosse definita perchè non è al Consiglio europeo che si tratta tale materia. Ha un rilievo la battuta del ministro degli esteri Tajani, che ai giornalisti ha detto: “Vediamo come saranno organizzate le vicepresidenze, non sappiamo se ci saranno vicepresidenze esecutive oppure no. In questo periodo sono circolati (o fatti circolare) via via i portafogli di rilievo dal punto di vista italiano: concorrenza, Pnrr, bilancio, coesione (questi tre forse riunificati), commercio. In più una vicepresidenza esecutiva, appunto. Poi i nomi: il ministro Raffaele Fitto e l’ex diplomatica responsabile del dipartimento informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.

  In linea generale i portafogli comunitari per l’Italia sono stati di chiaro rilievo e non c’è motivo perché non lo siano anche questa volta. Quanto alla vicepresidenza esecutiva attualmente riguarda tre commissari: Margrethe Vestager (liberale), Valdis Dombrovskis (popolare) e Maros Sefkovic (area socialista). La prima e il secondo hanno un portafoglio centrale politicamente e tecnicamente pesante, concorrenza e commercio. Poi Dombrovskis ha un ruolo di coordinamento sulle questioni economiche, tuttavia il commissario all’economia Gentiloni anche non essendo neppure vicepresidente (non esecutivo) ha avuto un ruolo determinante anche se le decisioni sulle politiche di bilancio nazionali sono a doppia firma, la sua e quella di Dombrovskis. Il francese Thierry Breton, voluto a Bruxelles dal presidente francese Macron per “guidare” i settori industria (anche della Difesa), sovranità tecnologica e mercato interno, ha esercitato un ruolo politico rilevante pur non avendo incarichi di coordinamento. Altro discorso per Frans Timmermans, socialista olandese, primo vicepresidente della Commissione con Jean-Claude Juncker presidente e poi fino ad agosto 2023 con von der Leyen. Il vero unico numero 2 di Bruxelles. Timmermans era il massimo responsabile del Green Deal, considerato la “bestia nera” da chi voleva frenare l’ambizione della riconversione verde. Rientrato in Olanda per esercitare un ruolo politico nazionale, di numero 2 della Commissione non si è più parlato. D’altra parte non ci sono segnali che von der Leyen intenda abbandonare il metodo di direzione seguito per cinque anni: estrema verticalizzazione del potere, tutto sotto puntuale controllo del “gabinetto” presidenziale. Ciò vuol dire che nel nuovo esecutivo conteranno sempre il peso specifico dei portafogli e il peso politico di chi ne assume la responsabilità.