Torna alla ribalta della discussione europea il salario minimo nazionale: l’Europarlamento ha votato a maggioranza una risoluzione in cui si chiede alla Commissione e agli Stati membri di valutare i regimi di reddito minimo nell’Unione europea, di verificare se tali regimi consentono alle famiglie di soddisfare le loro esigenze. E di valutare su questa base “modalità e strumenti” per fornire redditi minimi adeguati in tutti gli Stati membri. Tutto ciò in nome della “convergenza” e del riequilibrio sociale per reagire agli svantaggi della globalizzazione e della deindustrializzazione. Una risposta concreta all’euroscetticismo. Sebbene la commissaria belga Marianne Thyssen (cristianodemocratica fiamminga) abbia sempre incoraggiato gli Stati che non ce l’hanno a definire un salario minimo nazionale, nella proposta che dovrebbe essere definita per marzo non saranno “pestati i piedi” ai governi (questo ha indicato Thyssen all’Assemblea di Strasburgo) dato che si tratta di una competenza strettamente nazionale. Ciò, però, non impedisce di definire “dei parametri di riferimento” comuni.
L’argomento salario minimo è molto delicato e ha già fatto emergere polemiche sull’eccesso di dirigismo europeo. Il mondo imprenditoriale è sul chi vive, ma anche il sindacato lo è. Inoltre la discussione parlamentare ha messo in luce le divisioni tra sinistra e centro-sinistra europeo e il gruppo del partito popolare. La discussione parlamentare ha messo in luce la distanza tra sinistra e centro-sinistra europeo da una parte e il gruppo del partito popolare dall’altra. Per esempio il Ppe ha imposto l’abbandono di una misura indicata dalla relatrice Maria João Rodrigues, socialista portoghese, di definire un salario minimo nazionale per fissarlo ad almeno il 60% del salario mediano di ogni paese. E non è passata neppure la richiesta alla Commissione di definire un ‘salario sufficiente’ (per fronteggiare i bisogni fondamentali dell’esistenza) in ogni paese.
In conclusione, nella risoluzione viene solo evidenziata “l’importanza di regimi adeguati di reddito minimo per preservare la dignità umana e lottare contro la povertà e l’esclusione sociale, così come il loro ruolo, quale forma di investimento sociale che consente alle persone di partecipare alla società e intraprendere percorsi di formazione e/o la ricerca di un lavoro”. Per Maria João Rodrigues, ex ministro del lavoro in Portogallo, è un punto netto a favore dell’Europa sociale. Di fatto, secondo lei, il segnale alla Commissione e ai governi è che si deve procedere verso una legge europea. La commissaria Thyssen è più cauta, anche se ha spiegato agli eurodeputati che “se vogliamo che gli Stati membri convergano, sarebbe utile guardare tutti insieme a quello che è il salario minimo”.
Markus Beyrer di BusinessEurope dice che “stringere le maglie delle norme della sicurezza sociale e del lavoro avrebbe l’effetto opposto a quello desiderato”, cioè creare maggiore occupazione. L’European Trade Union Confederation (i sindacati europei) sostiene che “c’è bisogno di un salario minimo dove i sindacati e le aziende lo vogliono, non siamo d’accordo con l’idea di un’imposizione dove i sindacati non lo vogliono”.
Attualmente sono 22 gli Stati in cui c’è un salario minimo legale da rispettare: Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Regno Unito. Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia non ce l’hanno, ma di fatto c’è un livello di salario minimo definito nella contrattazione collettiva.
In Italia il salario minimo legale è ora previsto nel Jobs Act, ma non è rientrato nei decreti attuativi. Viene introdotto in via sperimentale il compenso orario minimo legale applicabile ai rapporti di lavoro subordinato, alle collaborazioni coordinate e continuative (fino alla loro scadenza) nei settori non regolati dai contratti collettivi nazionali. Si tratterebbe quindi di un sistema duale, sul modello del Belgio, che è un caso unico in Europa: coesistono, infatti, contratti collettivi nazionali di settore vincolanti e un salario minimo legale non derogabile dai contratti e a tutela di chi non è coperto da un contratto nazionale.
Il livello del salario minimo legale varia da paese e paese: più basso negli Stati dell’Est, meno di 500 euro al mese, a Malta, in Slovenia, Portogallo, Grecia e Spagna, secondo i dati Eurofund 2016, varia da 500 a mille euro. Negli altri paesi dell’Europa occidentale supera mille euro (più alto in Lussemburgo: 1922,96 euro, nove volte il livello del salario minimo in Bulgaria).
In un gruppo di paesi sono forti le pressioni per aumentarlo. Un rapporto recente di Eurofund indica Olanda, Ungheria, Romania, Croazia, Portogallo, Spagna e Bulgaria. In altri paesi imprese o istituzioni nazionali hanno dato l’allarme per l’eccessiva generosità del livello legale del salario minimo: in Francia la banca centrale (non solo le imprese), in Lussemburgo e a Malta la Camera di commercio. In Lettonia e Lituania c’è consenso sulla situazione attuale tra le parti sociali.