Non ha avuto peli sulla lingua il presidente della Commissione Jean Claude Juncker nei confronti di un Regno Unito che se ne andasse dall’Unione europea: “I disertori non saranno accolti a braccia aperte”, ha detto nell’intervista pubblicata da Le Monde. Le parole, gli appelli degli esponenti politici europei degli ultimi tempi riflettono uno stato di ansia crescente per il referendum britannico. Atmosfera da ultima spiaggia, scenario di disintegrazione politica. E questo nonostante che alcuni recenti sondaggi indichino il miglioramento delle posizioni dei favorevoli a confermare la presenza del Regno Unito nella Ue, in testa. Però gli indecisi dichiarati sono ancora molti, troppi, oltre il 10%. Giusto che i governi (purtroppo non tutti) e le istituzioni europee si preoccupino, assurdo che nei mesi in cui David Cameron affilava le ‘armi’ e accarezzava, lui sì, il pelo agli euroscettici, tutti in Europa usassero i guanti di velluto. E comunque, la vita non sarà dura solo per il Regno Unito, ma anche per il resto della Ue
Giusti in sé, i moniti del presidente della Commissione arrivano quantomeno in ritardo. Non che Juncker come gli altri esponenti politici europei, a partire dalla cancelliera Merkel, sopportassero più di tanto di essere tenuti in ostaggio da Cameron. Però mai parole così chiare come quelle dette a Le Monde dal politico lussemburghese sono state così secche e ultimative.
Il timore dell’”establishment” europeo è ovvio: in caso di Brexit si aprirebbe nell’Ue una crisi sostanziale. Non c’è da scherzare in un periodo in cui all’eterna punzecchiatura tra Nord e Sud (sui debiti pubblici) si è affiancata il ben più potente e pericoloso contrasto fra Ovest ed Est: Ungheria e Polonia guidano oggi l’”opposizione” a gran parte delle politiche comuni (eccetto quelle di redistribuzione dei fondi europei). Questi due paesi sono i ‘grandi azionisti’ del Gruppo di Visegrad, di cui fanno parte anche Slovacchia e Repubblica Ceca, un’alleanza nata nel 1991 per definire un percorso comune verso l’integrazione comunitaria. Oggi è la testa di ponte contro una gestione collettiva, solidale della crisi dei migranti. Ungheria e Polonia sono ai limiti del rispetto delle regole politiche fondamentali della Ue, secondo alcuni addirittura fuori. Per non parlare del successo dell’estrema destra in Austria, del consenso a Marine Le Pen in Francia. In questo senso Brexit sarebbe la fine dell’euroscetticismo così come l’abbiamo conosciuto e l’inizio di una nuova fase, imprevedibile, di nazionalismi nostalgici irrobustiti come non mai. E di rischi di ulteriori separazioni.
Il ‘che-cosa-potrebbe-accadere’ con Brexit è stato adeguatamente analizzato, stimato, approfondito per il Regno Unito. Da ultimo il Fondo monetario internazionale: un voto a favore dell’addio all’Unione europea, è scritto nel rapporto pubblicato qualche giorno fa, “precipiterebbe il paese in un periodo prolungato di elevata incertezza, di volatilità nei mercati finanziari e darebbe un colpo all’attività produttiva”. Le ipotesi per il medio-lungo periodo vanno da una perdita dell’1,5% al 9,5% del pil a causa dell’aumento delle barriere commerciali, della caduta degli investimenti e della produttività. La “relazione speciale” con gli Stati Uniti non basterà a reggere. A un certo punto potrebbe non valere il famoso detto degli anni Trenta ‘Maltempo sulla Manica, continente isolato’: gli isolati a quel punto potrebbero sentirsi i britannici e dovrebbero pure ammetterlo.
Il Fondo monetario internazionale tocca un tasto al quale i britannici sono sensibili, la finanza: “Può essere eroso il ruolo di Londra quale centro finanziario globale, le società britanniche possono perdere il loro ‘passaporto’ europeo, cioè il diritto a fornire servizi al resto della Ue, il business denominato in euro può spostarsi nel continente”. Il business e la finanza sono contro Brexit, ma non rappresentano certo la ‘pancia’ dell’elettorato britannico.
Meno indagati sono gli effetti che può avere Brexit sugli altri, sull’Unione europea. E c’è un motivo: per esercitarsi in proiezioni e previsioni occorre avere dei punti di riferimento. Oggi con il Regno Unito la Ue esiste, ma domani? Si è convinti, in sostanza, che la Ue di domani non sarebbe l’attuale Unione meno il Regno Unito. Sarebbe una Unione in formato assai più ridotto di 27 membri dal punto di vista politico-istituzionale. E probabilmente anche dal punto di vista numerico.
Il crescendo di appelli anti-Brexit (arrivano anche da Obama, dal premier giapponese, non solo dalle grandi multinazionali preoccupate dei loro bilanci) è in linea con il nervosismo latente dei mercati internazionali. I quali si sono appena calmati e già si intravvedono segni di tensioni dovuti all’attesa di quanto uscirà delle urne britanniche il 23 giugno.
Certamente ci sono dei segnali precisi nei mercati britannici, che non sono proprio una ‘periferia’ del mercato globale. Le transazioni nel mercato immobiliare sono calate del 40% nel primo trimestre dell’anno. La sterlina si è deprezzata del 9% in termini effettivi rispetto alle valute dei maggiori partner commerciali. Il costo dell’assicurazione contro il ‘default’ sovrano è raddoppiato (anche se da livelli molto bassi) ed è scattato verso l’alto anche il costo per assicurarsi contro la volatilità del cambio. La Banca d’Inghilterra parla di recessione sicura in caso di Brexit. Il governatore Mark Carney ha dichiarato che “la sterlina può svalutarsi ulteriormente, anche in modo violento, spingendo l’inflazione oltre gli obbiettivi”. Il paese si troverebbe o alle prese con l’alta inflazione, che avrebbe un costo diretto per famiglie e imprese, o in recessione con perdita di posti di lavoro. Ecco la conclusione: “Lasciare l’Unione europea ci costringerebbe a dover scegliere fra due sconfitte”.