Nessuno è in grado di stimare quanto i governi europei dovranno spendere per integrare i rifugiati che al 2017 potrebbero essere 3 milioni, se i calcoli della Commissione europea sono corretti. Porsi il problema dell’integrazione nel momento in cui alle frontiere dell’Europa centrale e del sud-est le frontiere tornano agli antichi controlli, sembra uno strappo alla logica. Eppure occorre pensarci adesso. Un messaggio in questo senso è stato inviato da imprese e sindacati europei (BusinessEurope ed Etuc): il leitmotiv della riflessione e della posizione comune è stato ‘non c’è ricollocamento sostenibile se non c’è integrazione”. Che deve includere necessariamente l’attività lavorativa. Molti governi, tra cui quello italiano, puntano allo ‘sconto’ delle spese per fronteggiare la crisi e, se forniranno i dettagli, lo avranno. Ma è solo l’inizio. Cominciano a circolare varie idee: l’Italia propone un eurobond di scopo, la Germania una tassa sulla benzina, un ‘think tank’ di Bruxelles un fondo rifugiati finanziato dai governi.
Una parte considerevole dei richiedenti asilo avrà bisogno di misure specifiche di integrazione dato che viene riconosciuta quasi la metà delle richieste. Nel caso di siriani, iracheni ed eritrei l’approvazione varia dall’87% al 98%. Nel caso degli afgani è del 70%. Difficile indicare una stima dei costi che saranno sostenuti entro fine 2016 per ricoveri, cibo, sanità ed educazione, compresi i trasferimenti in giro per l’Europa (se funzionerà il piano di ricollocamento per 160 mila persone, cosa tutta da dimostrare visto che non è mai decollato).
Il Fondo monetario internazionale ha stimato che i costi di bilancio nel breve termine possono essere in Svezia dell’1%, del pil, in Danimarca dello 0,6%; in Germania dello 0,4%, in Austria e Finlandia dello 0,3%, di oltre lo 0,2% in Italia e Olanda. Secondo l’Istituto di ricerche economiche di Colonia (Iwc) i soli costi per assistenza sociale e case per la Germania arriverebbero a 17 miliardi nel 2016 e se si aggiungono i costi per corsi di lingua e scuola si sale a 22 miliardi.
C’è consenso sul fatto che a medio e lungo termine l’integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro ha un impatto positivo sulla crescita, ma non è questo un argomento sufficiente per convincere tutti i paesi ad assicurare una soluzione europea solidale. Infatti, sta accadendo il contrario.
Le spese per fronteggiare l’emergenza migranti saranno tolte dai calcoli del ‘patto di stabilità’: il principio è stato più volte confermato sia dalla Commissione europea che dall’Eurogruppo. La deviazione rispetto al percorso di consolidamento dei bilanci non sarà presa in considerazione quando la Ue valuterà le politiche governative. È una delle tre clausole di flessibilità esistenti (le prime due riguardano riforme e investimenti). Ma non è un assegno in bianco, come sa bene il governo italiano che ha chiesto uno ‘sconto’ pari allo 0,2% del pil. Le spese vanno specificate e dettagliate, solo dopo riconosciute ai fini della valutazione degli obiettivi di deficit.
Tutti concordano sul fatto che per fronteggiare l’integrazione dei rifugiati e degli immigrati che già si trovano in Europa occorrerà pilotare le politiche di bilancio in modo “intelligente”. Le regole del patto di stabilità hanno già dovuto essere nuovamente aggiustate a causa del tremendo choc economico sotto il combinato crisi finanziaria/recessione. Adesso che la ripresa è avviata ma è troppo debole e troppi sono i rischi di peggioramento, le regole di bilancio sono sottoposte ancora a fortissime pressioni: chiaro è l’esempio dell’Italia che, con un deficit sotto la soglia fatidica del 3%, chiede margini più ampi e per un periodo non limitato a uno o due anni per consolidare la crescita e sostenere riforme interne e investimenti pubblici. Tutte cose che richiedono tempo per produrre risultati.
La crisi dei migranti, con i rischi per la stessa tenuta del mercato unico a causa della reintroduzione dei controlli alle frontiere nel cuore dell’Europa (che comporta notevoli costi economici), dovrebbe essere un caso classico di fattore eccezionale al di fuori della portata (diretta) dei governi. Quindi, un’ottima ragione per ‘sospendere’ l’efficacia delle regole di bilancio relativamente allo sforzo finanziario relativo. In un periodo in cui Germania e ‘Fronte del Nord’ continuano a ritenere qualsiasi spostamento dal sentiero del ‘patto di stabilità’ un regalo all’indisciplina di bilancio dei paesi periferici e dell’Italia, oltreché un attentato alla stabilità finanziaria e politica della zona euro, questo non sembra – purtroppo – essere un argomento convincente.
Ciononostante, si ragiona sempre di più su soluzioni alternative, che stanno guadagnando importanza quanto più è evidente che l’integrazione dei rifugiati ha bisogno di più tempo di quanto avviene normalmente per la classica manodopera immigrata regolare. E’ uno sforzo che, ricorda il Fondo monetario, “richiede grandi investimenti per evitare esclusione sociale e le sue dannose conseguenze per le persone coinvolte, l’economia e la società nel suo complesso”. L’Italia ha avanzato un mese fa una proposta ambiziosa: nel documento per il rilancio dell’unione monetaria (frutto dell’elaborazione del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan) si afferma che “la dimensione della nuova politica della gestione condivisa delle frontiere esterne richiede fonti di finanziamento diverse e giustificherebbe il ricorso a un meccanismo mutualizzato che potrebbe comportare l’emissione di obbligazioni comuni”.
A metà gennaio, il ministro delle finanze tedesche Wolfgang Schaeuble si è presentato di fronte ai suoi colleghi dell’Ecofin e degli affari sociali e ha proposto di introdurre un’imposta europea sulla benzina per finanziare la gestione dell’immigrazione irregolare per proteggere le frontiere esterne e migliorare la situazione nei paesi di origine. Una posizione personale la sua, non del governo tedesco. E’ stata ricevuti con molto freddezza dalla maggior parte dei suoi colleghi: le tasse ‘europee’ erodono il consenso.
L’European Policy Center di Bruxelles ha proposto di istituire un Fondo comune per l’integrazione per creare incentivi finanziari alla solidarietà. Finanziato nel breve termine dagli Stati potrebbe essere corroborato dal bilancio europeo. Dovrebbe fornire contributi mensili per ogni rifugiato registrato a livello locale, cioè là dove vengono forniti direttamente i servizi. L’eleggibilità per l’intervento sarebbe condizionata dalla partecipazione allo schema di ricollocamento dei rifugiati a livello Ue (il famoso piano dei 160 mila al quale si oppone una serie di paesi, a cominciare dall’Ungheria).
La Commissione sta lavorando a una proposta. “La crisi dei rifugiati è di una scala così grande che richiederà molto più di quanto previsto finora”, dice il responsabile degli affari economici Pierre Moscovici, che simpatizza con l’idea degli eurobond. La cosa certa è che quanto più sarà chiara la prospettiva potrà essere trovato il consenso tra i governi sul rispetto degli impegni di ricollocamento. E conseguentemente di integrazione.