E’ subito diventato un caso politico europeo la conclusione dell’inchiesta internazionale denominata ‘LuxLeaks’ (fuga di notizie sul Lussemburgo) che mette sotto accusa il Granducato per pratiche fiscali a favore di 340 società multinazionali, tra cui 31 italiane. Due i motivi. Il primo riguarda il particolare momento economico: l’ampiezza dell’evasione fiscale e la condotta di alcuni Stati tra cui il Lussemburgo stridono con la condizione dei cittadini e delle imprese “normali” sottoposte a terapie di bilancio ora solo leggermente ammorbidite dopo anni di stretta. Il secondo motivo riguarda l’effetto politico delle rivelazioni: premier del Lussemburgo è stato per 18 anni consecutivi Jean Claude Juncker, da sabato scorso presidente della Commissione europea, guardiano delle regole sugli aiuti di Stato, che dovrà decidere anche su inchieste aperte proprio contro il Lussemburgo per accertare se ha favorito alcune multinazionali (Amazon e Fiat). L’incanto con una parte considerevole del Parlamento europeo si è subito rotto: solo il Ppe lo difende. La Commissione fa quadrato ,ma il colpo per Juncker è molto forte, la sua credibilità potrebbe essere seriamente indebolita.
La rivelazione dell’International Consortium of Investigative Journalists cade in un momento particolare. A giugno la Commissione europea (responsabile antitrust lo spagnolo Joaquin Almunia) ha aperto tre inchieste per sospetti aiuti di Stato illegali contro Irlanda, Olanda e Lussemburgo per verificare che le imposte pagate rispettivamente da Apple, Starbucks e Fiat Finance Trading (la società di tesoreria del gruppo automobilistico) erano giuste oppure inferiori a quanto dovuto. Sotto tiro le “tax rulings”, quel meccanismo per cui certe imprese beneficiano di “importanti riduzioni di imposta – sostiene Bruxelles – accordate attraverso decisioni anticipate in materia fiscale utilizzate per gli accordi sui prezzi fatturati per le transazioni commerciali tra diverse entità dello stesso gruppo, in particolare per i beni venduti o dei servizi forniti da una filiale a un’altra dello stesso gruppo”. Se i prezzi sono di mercato nessun problema, se non lo sono ecco la traccia di un aiuto di Stato illegale. Legalmente tale sistema viene fatto passare per mero chiarimento anticipato sull’aliquota praticata.
Un mese fa la Commissione ha messo sotto tiro anche Amazon. Stato sotto accusa di nuovo il Lussemburgo per le stesse “decisioni anticipate”. Tanto per dire del ruolo del Granducato, vera e proprio “tempio” delle facilitazioni fiscali: a giugno la Commissione europea segnalava pure l’apertura di una procedura di infrazione contro il Lussemburgo perché contrariamente a Olanda e Irlanda aveva fornito a Bruxelles solo una quantità limitata di informazioni sul caso Fiat Finance and Trade. Solo dopo, il Granducato ha cominciato a collaborare un po’ di più.
Inevitabile che tutto questo si scarichi in termini politici su chi ha tenuto le redini del Granducato per 18 anni: premier fra il 1995 e il 2013, ministro delle finanze dal 1989 al 2009, presidente dell’Eurogruppo dal 2005 al 2013. Già la sua posizione di primo attore all’Eurogruppo avrebbe dovuto essere messa in discussione proprio per le posizioni del Lussemburgo sugli affari fiscali, ma nessuno ha mai sollevato il minimo problema. Per anni il Lussemburgo è stato fra i paesi (ultimamente in tandem solo con l’Austria) che hanno rallentato e perfino preso in ostaggio la gran parte degli altri Stati membri sulla controversa tassazione delle rendite da risparmio dei cittadini non residenti, in stretta alleanza con i cinque paesi terzi (Svizzera, Liechtestein, Monaco, San Marino e Andorra). Ha rallentato la marcia verso lo scambio automatico delle informazioni fiscali tra amministrazioni, sempre aggrappato alla difesa sempre più indifendibile di parti sostanziali del segreto bancario.
La pressione politica e le inchieste americane, la crisi finanziaria recentemente hanno superato questa situazione. La prossima settimana in Aiustralia si ritrovano i capi di Stato e di Governo del G20 per certificare al massimo livello politico le proposte Ocse contro quella che con un eufemismo viene chiamata “ottimizzazione fiscale”: si va verso procedure di trasparenza impensabili degli anni precedenti la crisi. È stata una strada sempre in salita e il Lussemburgo è sempre stato in coda a tirar la corda nel senso opposto.
Sarebbe sbagliato sottovalutare l’impatto politico di ‘LuxLeaks’ sui vertici della Ue. Juncker è presidente della Commissione da sabato scorso, il colpo di immagine e alla sua figura è fortissimo. L’esecutivo europeo è pêr definizione il ‘guardiano’ della regole e la fiducia nei suoi confronti deve essere totale. Difficile, impossibile per lui prendere le distanze dal passato (lunghissimo e recentissimo). Non risolve i dubbi la rassicurazione sul futuro. Il Parlamento europeo è in subbuglio, solo il suo partito, il Partito popolare, lo difende. Nessun commento dei suoi elettori, ai vertici dei governi (quello italiano compreso) che lo hanno voluto a Palais Berlaymont. Al ‘briefing’ della Commissione europea, una giornalista spagnola ha chiesto con quale coerenza la Commissione chiederà adesso ai cittadini europei di continuare a stringere la cinghia per tenere i deficit sotto controllo quando il suo presidente, quand’era alla guida del Lussemburgo, favoriva le multinazionali. La risposta è stata: noi ci atteniamo alle inchieste in corso sugli aiuti di Stato, non mischiamo cose diverse.