Tutte le volte che la Casa Bianca surriscalda i toni contro la Cina, l’Eurozona le va subito dietro facendo finta di avere il pieno controllo della situazione. Invece, dimostra solo l’estrema difficoltà ad avere un alto profilo di politica estera, che per un’area monetaria senza Stato (e senza eserciti, senza governo unico) è esattamente l’altra faccia della politica economica e della politica monetaria. Quasi puntualmente è quanto sta accadendo in questo periodo. A margine dell’ultimo vertice dei capi di stato e di governo, il presidente dell’Eurogruppo Juncker prima se l’è presa con i giapponesi per il loro intervento unilaterale per frenare la corsa dello yen, poi ha ricentrato il tiro su Pechino, tuonando contro l’apprezzamento “troppo lento e troppo limitato” dello yuan, che impedisce gli aggiustamenti necessari a una crescita mondiale equilibrata (in cui si correggano gli enormi surplus accumulati da una parte a fronte degli enormi deficit commerciali dall’altra). In realtà, le vere carte le stanno giocando gli Usa e mai come negli ultimi giorni la pressione su Pechino è stata così forte. Lo yuan si sta rivalutando con il contagocce, 2% dal 19 giugno, quando è stata ampliata la banda di oscillazione dello yuan, ora sganciato parzialmente dal cambio fisso con il dollaro.
Non che l’Eurozona, governi e Bce, non siano ascoltati sui mercati. L’euro resta saldamente la seconda divisa internazionale sempre dietro il dollaro, nel mercato internazionale delle emissioni di titoli di debito, se calcolate a tassi di cambio costanti, la quota in euro è del 46,7% contro il 37,5% in dollari (dati 2009). Quanto accade nel suo territorio (330 milioni di abitanti) ha un rilievo economico e finanziario enorme per la Cina: la Ue è il partner commerciale più importante della Cina e la Cina è per la Ue il secondo partner dopo gli Usa. Sta di fatto, però, che la diplomazia dell’Eurozona continua a essere sempre un passo dietro quella americana. Lo ha indirettamente ammesso lo stesso Juncker, che non parla mai a vanvera: in passato avremmo dovuto essere “più insistenti” sui tassi di cambio con la Cina, ha confessato ai giornalisti. Ci vuole dunque altro che non un paio di viaggi Bruxelles-Pechino della ‘troika’ economica europea (presidenti Eurogruppo e Bce più il commissario Ue agli affari economici). Stranamente la mezza ammissione di debolezza politica fatta da Juncker non ha provocato alcuna reazione. I suoi colleghi capi di stato e di governo hanno continuato a litigare sull’espulsione dei rom dalla Francia (cosa peraltro molto importante per la politica interna) e a cercare vanamente di definire una idea di politica estera europea parlando genericamente di ‘partnership’ strategiche.
Inevitabile far riferimento al problema di chi è Mister Euro in Europa: Juncker e Trichet hanno litigato spesso su questo punto non trovandosi mai d’accordo. Entrambi ritengono di esserlo. Non potendo beccarsi su questo argomento tutte le volte che si incontravano hanno deciso di non parlarne mai più. Se gli interventi sui mercati li decide la Bce è anche vero che l’articolo 138 del Trattato Ue dice chiaramente che il Consiglio, previa consultazione della Bce, può adottare “decisioni” per definire posizioni comuni “per garantire la posizione dell’euro nel sistema monetario internazionale”. La responsabilità, quindi, è quantomeno condivisa. Ciò che fa difetto, però, è la visione politica. Basta dire che il 4 e 5 ottobre si riuniscono a Bruxelles i capi di stato o di governo di 46 paesi europei e asiatici dell’Asem (dialogo Asia-Europa), che il 6 ottobre ci sarà il vertice Ue-Cina (sempre a Bruxelles) e non c’è mai stata ai massimi livelli una discussione vera, effettiva, sulle prospettive delle relazioni tra queste due parti del mondo. E si capisce il perché: in tutte le capitali che contano, l’interesse prevalente è rivolto a irrobustire le relazioni bilaterali.
La lista dei vuoti di decisione europea, comunque, è lunga e certo non rafforza l’idea di una politica estera dell’euro. Basta ricordare l’incapacità dell’Eurozona e dell’intera Unione europea di avere una voce unica nelle sedi internazionali e nei consessi G7-G20, incapacità che rende deboli gli stessi grandi paesi europei in istituzioni come il Fondo monetario nel quale gli Usa continuano a godere del diritto di veto su decisioni fondamentali. In tali condizioni è chiaro che l’Eurozona si è autocondannata a limitarsi agli appelli discreti e a una felpatissima ‘moral suasion’.