I ministri dell'economia hanno rinviato a gennaio la conferma del lussemburghese Jean-Claude Juncker alla presidenza dell'Eurogruppo con la motivazione che devono essere ancora discussi gli effetti del Trattato di Lisbona in relazione al ruolo dell'organismo che resta sì informale, nel senso che le sue decisioni non hanno conseguenze legali, ma assume per la prima volta una veste istituzionale ad alto valore politico. Eppure che cosa cambierà con il Trattato in vigore dal primo dicembre è noto da tempo. E stando ad alcuni influenti 'azionisti’ dell'Eurogruppo (Germania, Olanda, Lussemburgo) c'è pure un "largo" accordo perchè Juncker resti fino a metà 2012 nonostante all'Eurogruppo abbia già consolidato una fortissima e inusitata rendita di posizione: candidato unico e unico presidente dell'Eurogruppo dal 2005. Se tutti sanno tutto e c'è accordo su Juncker perchè aspettare?
In realtà le cose sono piuttosto complesse. Intanto c'è la questione del presidente. Su questo è scoppiato un caso Italia. Giulio Tremonti, candidato pubblicamente dal premier Silvio Berlusconi, non ce l'ha fatta, almeno se si prendono per buone le parole del ministro tedesco delle finanze Schauble e quelle dello stesso Juncker. Il ministro delle politiche comunitarie Ronchi, però, smentisce che i giochi siano conclusi e attribuisce a Tremonti delle probabilità di riuscita. È una situazione molto pasticciata. Visto che si tratterebbe della terza bocciatura in pochi mesi di un candidato italiano a un posto europeo di rilievo (Mario Mauro alla presidenza dell'Europarlamento prima, Massimo D'Alema al posto di 'ministro’ degli esteri poi), ci si aspettava da parte dell'Italia un dispiegamento di forze, invece il governo sembra aver scelto un profilo basso. A parte Ronchi, silenzio totale. Può darsi che al vertice Ue di metà dicembre il premier sollevi la questione, magari con l'obiettivo di acquisire punti per un credito futuro, per esempio la presidenza Bce a Mario Draghi a fine 2011. Secondo una voce non confermata sarebbe stato lo stesso Tremonti a chiedere all'Eurogruppo di rinviare di un mese la decisione. In ogni caso appare improbabile che Juncker e Merkel (non va dimenticato che la Germania vede come il diavolo la proposta di eurobond rilanciata da Tremonti) e la maggioranza degli altri governi dell'Eurogruppo cambino posizione. Gli eventi indicano che da parte italiana la cosa è stata gestita in modo poco convinto, tanto che in questi giorni a Bruxelles molti addetti ai lavori hanno perfino dubitato che la candidatura di Tremonti fosse mai veramente decollata.
Un'altra ragione del rinvio ha a che vedere con il ruolo dell'Eurogruppo: non c'è ancora un accordo su quale dovrà essere il suo nuovo profilo. È questa la vera sfida. Intanto c'è un problema organizzativo che rimanda agli equilibri politici tra governi e Commissione: quale ruolo e dimensione dovrà avere il suo segretariato, alle dipendenze di chi sarà. Sarà trasferito al Consiglio Ue, cioè sotto le dipendenze del segretario generale Pierre de Boissieu, francese e quasi una leggenda per gli eurocrati, o continuerà a essere a mezzadria fra Commissione europea e governi nazionali? Il segretariato ha un ruolo chiave: prepara le riunioni dell'Eurogruppo, consolida analiticamente i punti di vista, può spingere in una direzione piuttosto che in un'altra. La Francia preme molto per la prima soluzione, la Germania sta in bilico, l'Italia non si sa.
Il secondo problema è di obiettivi. L'articolo 136 del Trattato indica che i governi dell'unione monetaria prendono misure per rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio, elaborare gli orientamenti di politica economica vigilando affinchè siano compatibili con quelli adottati per l'insieme dell'Unione e garantirne la sorveglianza". È un campo di azione che se solo si volesse sarebbe pressocchè sconfinato. Se l'Eurogruppo avesse vigilato sul serio sulle politiche economiche dei paesi membri e sugli squilibri esterni e interni, non limitandosi solo a tamponare le falle nei bilanci pubblici quando i conti erano già sfuggiti al controllo, forse in Irlanda, Spagna e Grecia (i tre anelli deboli dell'Eurozona) le cose sarebbero andate diversamente. Le regole del patto di stabilità funzionano, ma solo dopo che i buoi (i soldi pubblici) sono scappati, la prevenzione è ancora una chimera. La crisi offre una occasione unica per rimediare, però, si parla tanto di 'exit strategy' e nessuno le ha ancora definite nero su bianco. Per coordinarle sul serio saranno necessarie delle procedure, qualche regola di massima. Quanto sia necessaria una forma più strutturata di governo economico lo dimostrano la crisi della Grecia, i rischi che la destabilizzazione delle finanze pubbliche in quel paese comportano per l'intera area. Si tratta di un terreno minato. In febbraio, nell'Eurogruppo qualche voce si era levata a favore del coordinamento delle emissioni di titoli di stato per evitare una concorrenza sul mercato dei risparmiatori in un momento in cui tutti hanno bisogno di piazzare presto e bene i titoli pubblici. L'idea è stata subito accantonata.