LETTERA DA BRUXELLES Anche il blocco delle frontiere tra i costi della ‘non Europa’

Ancora non c’è un calcolo degli effetti economici che il ritorno alle dogane potrebbe comportare. Vari centri di ricerca stanno elaborando delle simulazioni per delineare gli scenari possibili sulle conseguenze per l’economia della reintroduzione dei controlli a macchia di leopardo nella Ue. Se questa sarà una scelta di medio periodo. Vedremo i risultati, ma la cosa certa è che tra i costi della cosiddetta ‘non Europa’ (cioè i costi delle barriere che ostacolano la libera circolazione nel mercato unico) d’ora in poi occorrerà mettere anche quelli derivanti dal rallentamento delle merci in alcune direttrici. La notizia degli ultimi giorni è che la cancelliera Merkel si sta trovando in seria difficoltà nel far digerire in Germania la coraggiosa scelta dell’accoglienza, ma uno studio della Deutsche Bank indica che “il successo nell’integrazione offre alla Germania l’opportunità di consolidare la sua forte posizione economica in Europa”.

La valutazione dei costi economici della reintroduzione parziale dei controlli alle frontiere non è ancora possibile, indicano fonti tecniche europee, perché siamo solo all’inizio di un processo, non si sa se questa soluzione prenderà piede oppure resterà limitato ad alcune tratte. Chi sta lavorando sui numerosi aspetti del ‘dossier’ migranti indica che ci sono già segnali di un possibile impatto significativo sul movimento delle merci tra Serbia e Croazia, tra Croazia e Ungheria e tra Croazia e Slovenia.

“E’ presto per fornire delle cifre e tanto meno è possibile disegnare scenari credibili perché non sappiamo né la durata né l’estensione dei controlli alle frontiere delle persone né in quale misura ciò impatterebbe sugli scambi in tutta l’area est e sud-est della Ue”, indica una fonte tecnica europea.

All’inizio degli anni Ottanta gli economisti Michel Albert e James Ball indicavano che ogni lavoratore europeo lavorava una settimana ogni anno per pagare la ‘non Europa’ con un costo aggiuntivo di circa il 2% del prodotto loro nazionale. Il concetto di costo della ‘non Europa’ era l’asse centrale della relazione Cecchini dell’aprile 1988, punto di riferimento universale per il completamento del mercato unico. Allora venne stimato che il vantaggio per il pil comunitario di questo programma sarebbe stato del 4,5% del pil fino a un massimo potenziale del 6,5%. Uno studio recente del Parlamento europeo indica che il miglioramento cumulativo in termini di efficienza di una serie di azioni politiche a livello europeo pr rafforzare il mercato unico potrebbe ammontare a circa 800 miliardi di euro. A prezzi correnti sarebbe circa il 6% del pil dell’Unione europea. Purtroppo il dibattito europeo rischia di essere adesso più concentrato sui costi dell’Europa: causa la crisi dei migranti e la minaccia di Brexit.

La sensazione degli economisti che stanno lavorando nei vari ‘palazzi’ Ue sui diversi scenari possibili, è che finora gli eventi non sono tali da incidere significativamente sul movimento delle merci, sulla fiducia dei consumatori e del business. Ma avvertono che la situazione “appare molto precaria” perché “l’accoglienza dei rifugiati non è sicura, i migranti economici sono spariti da radar dei media ma ci sono sempre, i tempi dell’accoglienza sono lunghi e i processi di integrazione sono ancora più lunghi”.

E’ appena uscito uno studio del settore ricerca della Deutsche Bank che spiega come la strategia seguita da Angela Merkel possa essere ben compresa tenendo conto di fattori strutturali che riguardano l’economia e la società tedesche. La questione è semplice: l’afflusso di rifugiati, che per la Germania ha superato il milione, è anche una opportunità per il paese. Creerà problemi enormi, naturalmente. Se l’andamento del flusso di rifugiati continasse nel tempo, la Germania diventerebbe la prima destinazione di immigrazione tra i paesi Ocse, davanti agli Stati Uniti. E, piaccia o no, indicano i due economisti che hanno elaborato il rapporto di Deutsche Bank, Barbara Boettcher e Stefan Schneider, la Germania “resterà probabilmente un magnese per i rifugiati”.

Eppure i rifugiati rappresentano una soluzione rapida per “ringiovanire la popolazione” in un paese in cui c’è una crescente scarsità di forzalavoro e si teme un indebolimento della crescita potenziale. Nei prossimi dieci anni si prevede che in Germania la popolazione perderà 3 milioni e mezzo di individui e la forzalavoro perderà 4,5 milioni di ‘baby boomers’ che andranno in pensione. “Senza immigrazione la crescita economica tedesca calerà nei prossimo dieci anni dall’attuale media di 1,5% a solo 0,5% annuale, di conseguenza la stabilità dei sistemi di sicurezza sociale sarebbe a rischio, specialmente il sistema pensionistico”.

L’integrazione dei rifugiati avrà un costo enorme, ma la Germania ha i ‘cuscinetti’ di salvataggio nel bilancio per farvi fronte. A fine 2014 il costo netto per l’accoglienza era superiore a quello sostenuto nel 2013 del 58%. Però questi costi, indicano i due economisti, devono essere visti come “un investimento nel futuro”: i rifugiati sono giovani, il 30% ha meno di 18 anni. C’è un problema di formazione della forzalavoro e di educazione perché tra i rifugiati ci sono alte percentuali di lavoratori ad alta e altissima qualificazione così come alte percentuali di lavoratori a bassa e bassissima qualificazione. Ma è la presenza di giovani a rendere le cose relativamente meno drammatiche.

In ogni caso, “si attenuerà la dinamica declinante del tasso di crescita dovuta all’invecchiamento della popolazione tedesca e invece di muoversi verso la relativa stagnazione l’economia tedesca potrebbe attestarsi sulla media dell’1% nei prossimi dieci anni”.

Nel rapporto Deutsche Bank si nota come le “eccellenti condizioni del mercato del lavoro tedesco” offrono una finestra di opportunità essendo il livello di occupazione a un picco elevato e il tasso di disoccupazione al livello più basso dalla riunificazione (5,2% nel 2016). I posti di lavoro vacanti nel secondo trimestre superavano il milione di cui l’80% ‘pronto’ per essere occupato immediatamente: il 20% per posizioni non qualificate, il 60% per una formazione specifica, il restante 20% per laureati o diplomati da scuole tecniche. In Germania circa un terzo delle posizioni restano vacanti per più di tre mesi e da tempo si è convinti che “in molti casi” coprire le posizioni aperte con la sola forzalavoro già residente non è possibile.