Estate di divisioni sulla regolazione della finanza

Che la finanza vada regolata nessuno ha dubbi in Europa e anche gli ultimi segnali da Londra vanno in questa direzione. Il problema è fino a che punto, attraverso quali strumenti di controllo (più sovranazionali o più nazionali?), con quali progetti più a lungo termine sul ruolo delle piazze finanziarie europee (fondamentalmente il ruolo della City londinese, piattaforma centrale degli scambi denominati in euro in un paese che l’euro non lo vuole neppure dipinto). La verità è che dopo tanto parlare, proporre, invitare a fare presto, l’inizio dell’estate ha portato anche un sacco di problemi fra i paesi chiave della Ue. E tutto lascia pensare che il Regno Unito, che ha fatto fuoco e fiamme per mettere alti paletti alla Commissione europea per le proposte legislative che definiranno la struttura di supervisione dei mercati finanziari (banche, Borse, assicurazioni) e dei rischi sistemici, non sia affatto isolato.

La Commissione europea procede con i piedi di piombo consapevole che le scelte sulla regolazione finanziaria cascano in un periodo istituzionale tormentato: Josè Barroso potrebbe trovarsi sotto scacco all’Europarlamento se dovesse essere votato in settembre (e non a luglio) per strappare il secondo mandato come presidente della Commissione. Avrebbe il coraggio di presentare proposte indigeribili per i britannici, che vogliono smorzare il più possibile i poteri dei comitati europei di supervisione evitando l’avvio del declino del potere assoluto delle autorità di supervisione nazionale? Molto difficile.

Che Londra non sia isolata è dimostrato dal modo in cui la Svezia ha preso in mano i dossier in quanto presidenza di turno della Ue per la seconda metà dell’anno. Il ministro svedese dei mercati finanziari Mats Odell ha messo subito in guardia dall’eccesso di regolazione "più che zelante" (al limite del fanatismo) affermando che "in alcuni paesi c’è una visione esagerata secondo cui hedge funds e private equity ci hanno fatto precipitare nella crisi". Che gli hedge funds non abbiano scatenato la crisi è un fatto, ma che l’insegnamento principale della crisi è che non dovranno mai più esserci settori non controllati ora deve pure essere considerato un dogma. L’avviso svedese si inserisce in mezzo a una pressante campagna contro le proposte della Commissione che fa perno su Londra (l’80% degli hedge funds europei si trova nella City), secondo cui il progetto di regolazione Ue marginalizzerà l’Europa nell’innovazione finanziaria.

Parigi e Berlino (nonostante la crescente distanze sulle strategie per la finanza pubblica) serrano i ranghi. In parte difendono le proposte della Commissione (passaporto europeo accordato ai gestori che accettano la registrazione in un paese Ue; proibizione per banche e assicurazioni di investire in hedge funds domiciliati in paesi che non offrono lo stesso livello di protezione europeo; sotto controllo solo i gestori di hedge funds sulla base di certe soglie di portafoglio). In parte no, perché le considerano abbastanza deboli. La Francia per esempio teme che il ‘certificato’ europeo possa facilmente essere garantito a fondi domiciliati in piazze finanziarie non cooperative dal punto di vista degli scambi di informazioni fiscali.

Non è un caso che la responsabile della finanze francesi Christine Lagarde abbia lanciato un allarme alla Commissione europea ricordandole i suoi doveri in materia di proposta legislativa (una vera novità per un governo che considera Bruxelles una sorta di segretariato dei Ventisette): "L’Europa doveva lanciarsi in riforme legislative ambiziose per rafforzare la sicurezza dei risparmiatori, degli investitori e del sistema finanziario". Resta da chiedersi come mai la Francia abbia confermato, pur senza sorrisi, la propria fiducia a un Barroso 2.